Scriveva Bertrand Russell, in una valutazione certo non benevola di Hegel e della sua filosofia politica, che «un uomo può essere perdonato se è costretto dalla logica a giungere controvoglia a conclusioni che deplora, ma non gli si può perdonare di allontanarsi dalla logica per potere liberamente perorare il delitto». È una battuta che mi è tornata in mente infinite volte da quando la controffensiva ucraina ha messo definitivamente a nudo tutta la superficialità, l’ipocrisia e la malafede del nostro dibattito sulla guerra.
È grazie al sostegno e alle armi occidentali se gli ucraini hanno potuto impedire che accadesse in tutto il Paese quello che è accaduto a Bucha, Irpin, Hostomel e negli altri luoghi dell’orrore, dove gli occupanti non hanno esitato a fare strage di civili, stuprando, sequestrando e torturando a morte centinaia di uomini, donne e bambini inermi.
Comunque si concluda la guerra, il successo della controffensiva ucraina dimostra semmai che l’esercito di Kyjiv andava aiutato e rifornito prima, senza tante esitazioni. Dimostra soprattutto quanto fosse falsa e interessata la teoria secondo cui in tal modo non avremmo fatto altro che prolungare le sofferenze dei civili: quei civili che oggi mostrano ai loro liberatori le fosse comuni in cui sono stati costretti a seppellire familiari, amici e vicini di casa.
In molti ancora oggi cercano cinicamente di sfruttare le paure di un elettorato spaventato dal conflitto, dalle minacce di possibili catastrofi nucleari e dall’impennata delle bollette, parlando della necessità di imporre la pace (e di interrompere l’invio di armi all’Ucraina). Ma cosa intendono dire davvero con simili frasi fatte, ammesso e non concesso che qualcosa di concreto intendano dire effettivamente, se non una sorta di atroce «chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto», e tanto peggio per quelli che sono rimasti nelle zone occupate?
Intendiamoci, la diffidenza per ogni forma di nazionalismo, un certo grado di sospetto e anche di disagio nei confronti di tutto il lessico guerresco che parla di gloria e onore per la nazione, da chiunque venga utilizzato, è più che giustificato, specialmente in Italia. È con quella retorica che siamo stati spinti prima nell’immane tragedia della Grande guerra, poi nell’incubo del fascismo e infine nella catastrofe della Seconda guerra mondiale.
Qui però nessuno chiede agli italiani di gridare nelle piazze «Slava Ukraini», gloria all’Ucraina. Per quanto ci riguarda, non si tratta di gloria, onore o prestigio, concetti astratti e scivolosi, tanto più se riferiti a una nazione. Si tratta della vita, della dignità e della libertà di milioni di persone, vittime di un’aggressione insensata e ingiustificabile. Si tratta semplicemente di non voltarsi dall’altra parte di fronte ai massacri e alle torture.
La gloria non c’entra. Semmai, pensando al nostro dibattito pubblico di questi ultimi mesi, c’entra l’ignominia.