Matteo Salvini dice che non vuole togliere le sanzioni alla Russia, ma solo «porre il tema» della loro inefficacia. Giorgia Meloni giura di non voler mettere in discussione il Pnrr, ma solo «rinegoziarlo», perché può essere «perfezionato». Giuseppe Conte dice che lo scostamento di bilancio ci vuole, certo che ci vuole, e tuttavia, sia chiaro, «l’extra-deficit, come obiettivo in sé, non va perseguito, ma in un quadro serio, ragionato, prudente, autorevole di politica economica e sociale ecco che anche questo diventa uno strumento per proteggere il nostro tessuto sociale e il nostro tessuto imprenditoriale».
Inutile domandarsi per quale motivo uno dovrebbe spiegare che una determinata scelta è utilissima, se non la volesse perseguire, o perché dovrebbe dire che una certa decisione è dannosissima, se la volesse comunque confermare, o perché mai dovrebbe sostenere che un intero accordo vada rinegoziato, con tutti i rischi che questo comporta, se l’obiettivo fosse soltanto fare delle limature, aggiornare i calcoli e correggere i refusi.
È la politica al tempo della post-logica. Un tempo in cui le dichiarazioni non contano davvero per quello che dicono, ma per quello che evocano. Non per quello che affermano, ma per quello che lasciano intendere. Lo si potrebbe definire populismo da fischietto a ultrasuoni: l’importante è mandare un segnale a chi la pensa in un certo modo, senza però compromettersi troppo agli occhi tutti gli altri.
Non è in sé un fenomeno nuovo, ma fa una certa impressione la dimensione che ha assunto in questa campagna elettorale. Probabilmente è il risultato di una complessa equazione in cui da una parte stanno gli stessi populisti del 2018, dall’altra il governo Draghi (con la sua popolarità) e una crisi internazionale dai pesanti riflessi economici che nessuno sa davvero come affrontare. Il risultato è questo continuo gioco di dico e non dico, potrei ma non voglio, tiro il sasso e nascondo la mano, almeno fino al giorno del voto.
In un mondo più ingenuo o forse solo più razionale del nostro, un politico che va in giro a dire che le sanzioni non fanno un baffo a Vladimir Putin mentre danneggiano moltissimo imprese e famiglie italiane, e al tempo stesso ripete però di non sostenere affatto che vadano tolte, susciterebbe la banale domanda: ma se sono inutili, anzi dannose, per quale motivo le vuole tenere? Ma non succede, perché nell’Italia di oggi anche il fischietto a ultrasuoni funziona come tutto il resto, cioè male, e lo sentono tutti. La domanda è superflua, perché la risposta è ovvia.
Così Conte e tanti altri che la pensano come lui possono ripetere ogni giorno che il loro sostegno all’Ucraina è fuori discussione, e al tempo stesso che è ora di interrompere l’invio di armi, cioè l’unica cosa che gli ucraini ci chiedano, e senza la quale sarebbero già stati spazzati via. E di nuovo, anche qui, nessuno chiede conto della contraddizione, semplicemente perché non c’è niente da chiarire: è tutto fin troppo evidente.
Con l’aggravarsi della crisi energetica e l’aumentare delle bollette, purtroppo, è ragionevole prevedere che crescerà anche il numero dei politici che non prendono una posizione, bensì «pongono un tema». Si fanno delle domande. Si interrogano.
Auguriamoci che all’indomani delle elezioni, quando verosimilmente molti di loro saranno al governo, trovino risposte diverse da quelle che oggi lasciano intendere.