Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 53 di We – World Energy, il magazine di Eni
I fondi sovrani d’investimento (Sovereign Wealth Fund, Swf) sono ampiamente riconosciuti come attori chiave della finanza mondiale. Con undicimila miliardi di dollari di attivi e un’impressionante concentrazione di ricchezza, negli ultimi due decenni queste nuove centrali finanziarie hanno stabilizzato i mercati finanziari e contribuito alla diversificazione delle rispettive economie nazionali.
Particolarmente spettacolare è stata l’ascesa dei fondi basati su commodity (idrocarburi in primis). Grazie al boom del prezzo del petrolio, alimentato dalla crescita ad alta intensità di risorse dei mercati emergenti, i fondi sovrani petroliferi rappresentano oggi il 53 percento dei fondi operativi e il 52 percento del patrimonio gestito mondiale.
Oggi, tuttavia, i fattori macroeconomici che hanno determinato la spettacolare crescita dei fondi sovrani negli ultimi due decenni sembrano aver esaurito la propria forza. Molto probabilmente, l’era della grande accumulazione è finita e oggi i fondi sovrani sono alle prese con le sfide poste da uno scenario incerto, caratterizzato da nuovi fondamentali del settore e accresciuti rischi geopolitici.
Il superciclo del petrolio
Innanzitutto, guardando alle proiezioni a lungo termine, il superciclo del petrolio volge ormai al termine, con una domanda che l’International Monetary Fund (Fondo Monetario Internazionale, Imf) stima raggiungerà il picco entro il 2030. Di fatto, in risposta agli stimoli dati dall’aumento dei prezzi del petrolio, dai regolamenti e dalle preoccupazioni sociali per i cambiamenti climatici, molte economie si sono sforzate di ridurre il consumo di petrolio ricorrendo a migliorie tecnologiche.
L’impatto di questi sforzi è rimasto finora in ombra per effetto della sostenuta crescita della domanda di petrolio, alimentata dall’espansione economica e demografica mondiale, ma la previsione è che esso si faccia più pronunciato durante la recessione in arrivo e che una maggior rapidità dell’innovazione e una maggior spinta normativa per la tutela dell’ambiente gli diano un’importante accelerazione.
Conseguenza di questi sviluppi è la forte riduzione della potenziale domanda mondiale, attuale e futura, di fornitura di petrolio e, quindi, della crescita prevista per gli attivi dei fondi sovrani. Nel 2020 i fondi sovrani hanno resistito alla crisi del Covid-19, uno shock negativo che per le sue caratteristiche da cigno nero, la sua intensità e il suo dirompente potenziale ha messo duramente alla prova la mission e i mandati dei fondi sovrani.
Con una manciata di eccezioni, tra cui i fondi pensione e quelli di stabilizzazione, la maggioranza dei fondi sovrani si è improvvisamente resa conto che, pur in assenza di passività esplicite, deve obbligatoriamente far fronte a passività implicite: le obbligazioni contingenti verso i governi sponsor, le cui economie sono colpite da shock gravi e inattesi. Di fatto, i fondi sovrani sono stati chiamati sia a colmare le lacune del bilancio pubblico sia a sostenere le rispettive economie nazionali in difficoltà con bailout aziendali.
Secondo stime recenti, i fondi sovrani hanno liquidato attivi per un valore di 211 miliardi di dollari per aiutare i rispettivi governi a far fronte alla crisi, investendo al contempo 57 dollari in aziende in difficoltà, in particolare in bailout nel settore dell’aviazione. Colpiti dal doppio smacco della pandemia e del calo delle entrate dagli idrocarburi, i fondi sovrani stanno oggi affrontando le scosse di assestamento dello scoppio della guerra ucraina.
Secondo l’FMI, la guerra farà salire il prezzo medio del petrolio a 106,83 dollari il barile nel 2022 e a 92,63 dollari nel 2020, con un rialzo di 38 dollari rispetto al 2021 e un conseguente miglioramento dei saldi di bilancio e dei saldi con l’estero dei paesi esportatori. Le entrate petrolifere aumenteranno di 320 dollari, in tandem con le riserve ufficiali, con un aggiornamento previsto di 235 dollari.
L’Arabia Saudita è uno dei principali beneficiari degli alti prezzi del greggio, con entrate petrolifere che nel primo trimestre sono salite a 49 miliardi, il 58 percento in più rispetto allo stesso periodo del 2021; il regno saudita progetta inoltre di aumentare la potenza di fuoco del fondo sovrano d’investimento da 620 miliardi di dollari presieduto dal principe ereditario Mohammed bin Salman, capo del governo.
I paesi produttori di petrolio stanno così mietendo benefici sul breve termine grazie a entrate straordinarie, e potrebbero anche aumentare la produzione per raccogliere profitti extra dall’attuale rialzo dei prezzi. Il futuro dei fondi sovrani basati sul petrolio appare roseo, perché avranno nuovi petrodollari da spendere nel futuro prossimo e potranno aumentare gli investimenti.
Questi vantaggi potrebbero tuttavia rivelarsi un fuoco di paglia se, nei prossimi anni, i paesi importatori accelereranno la transizione verso le energie rinnovabili e diversificheranno l’offerta per migliorare la sicurezza energetica. Inoltre, il sollievo temporaneo di tali vantaggi potrebbe indurre all’autocompiacimento e rallentare i necessari sforzi di diversificazione delle economie basate sugli idrocarburi, considerando le inevitabili tendenze di lungo periodo del settore.
Il nuovo scenario geopolitico
È importante sottolineare che i fondi sovrani, di tutti i tipi, nelle proprie strategie di investimento devono ora tener conto delle implicazioni del nuovo scenario geopolitico. Istituiti nell’età dell’oro della globalizzazione, i fondi sovrani inizialmente investivano principalmente con l’obbiettivo della piena diversificazione tra paesi e settori, per massimizzare la redditività corretta per il rischio.
Le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina e il deteriorarsi delle relazioni tra Occidente e Russia a causa della guerra hanno completamente cambiato il quadro, costringendo gli investitori sovrani a ridefinire le proprie strategie in un contesto di accresciuti rischi geopolitici. Di fatto, i governi stanno ponendo barriere agli investimenti esteri diretti in settori strategici, aumentando il controllo sugli accordi internazionali; pertanto, alcuni obbiettivi potrebbero non essere più conseguibili.
Gli attivi nelle giurisdizioni critiche possono essere congelati dalle sanzioni internazionali, con aumento del rischio di deterioramento degli attivi e di write-off dei portafogli internazionali dei fondi sovrani. Più in generale, sarà più difficile separare l’attività di investimento dei fondi sovrani dalla volontà dei loro padroni politici, e i fondi sovrani si trasformeranno in strumenti di politica estera. Possiamo aspettarci un aumento del flusso di operazioni a livello nazionale, oppure attraversare confini amichevoli con operazioni dalle motivazioni politiche.
Per quanto concerne l’allocazione degli investimenti, i fondi sovrani dovranno affrontare nuovi trade-off tra rischio e rendimento. La diversificazione internazionale degli investimenti, una delle raison d’être dei fondi sovrani, ne verrà limitata, e sarà meno efficace nel generare rendimenti finanziari. Gli investimenti interni saranno invece più sicuri, seppur meno redditizi.
Guardando alla recente evoluzione degli investimenti azionari per commodity da parte dei fondi sovrani, si osservano dei trend interessanti. Gli investimenti in energia verde sono aumentati considerevolmente dalla metà di questo decennio, e nel 2020 hanno rappresentato il 7 percento delle operazioni e il 6 percento del valore. I dati sono ampiamente coerenti con il forte impegno dei fondi sovrani a promuovere la transizione energetica dagli idrocarburi alle rinnovabili.
Come qualsiasi altro investitore con un orizzonte d’investimento a lungo termine, anche i fondi sovrani devono integrare nel proprio quadro d’investimento la sostenibilità, per ridurre al minimo l’impatto di questo secolare trend sui rendimenti futuri e sfruttare le opportunità di generazione alfa che può offrire. Tuttavia, gli stakeholder politici chiedono ai fondi sovrani, entità di proprietà statale, di decarbonizzare i propri portafogli e accelerare l’agenda verde per garantire l’accesso all’energia nel futuro post-idrocarburi.
Anche guardando il profilo internazionale degli investimenti per fondo sovrano commodity, distinguendo tra operazioni estere e nazionali, i dati mostrano chiaramente che gli investimenti azionari sono fatti prevalentemente all’estero e orientati alla diversificazione internazionale. Si osserva tuttavia una maggiore concentrazione di attività in patria nei periodi di shock economico (crisi finanziaria mondiale, shock petrolifero del 2014-15, pandemia di Covid-19).
Dati più recenti consentiranno di capire se le considerazioni geopolitiche spingeranno i fondi sovrani a espandere la propria attività di investimento in patria o in paesi amici al fine di mitigare il rischio politico. I fondi sovrani navigano quindi in acque incerte, perché l’economia mondiale è scossa da molteplici crisi. Prevedere la loro evoluzione futura è difficile se non addirittura impossibile.
Non si possono tuttavia eludere alcune domande fondamentali. Quanta è la resilienza dei paesi ricchi di risorse in questo ambiente nuovo e difficile? Più precisamente, quanto sono forti i cuscinetti delle nazioni produttrici di petrolio in termini di attivi sovrani impegnabili, diversificazione delle risorse e capitale istituzionale? I dati possono dare risposte provvisorie e preliminari e contribuire a vagliare alcune delle possibili traiettorie future dei fondi sovrani.
La resilienza economica e finanziaria
Abbiamo sviluppato un nuovo indicatore, l’Efri (Economic and Financial Resilience Indicator), che misura la resilienza economica e finanziaria, consentendo la sostanziale comparazione delle nazioni ricche di risorse. L’Efri si basa su quattro pilastri: (I) l’Adjusted Sovereign Wealth, il rapporto tra il totale degli attivi sovrani (negoziabili) di un paese al netto delle passività pubbliche a breve termine e il disavanzo pubblico non petrolifero, e rappresenta in linea di massima il numero di anni che un governo impiegherebbe a esaurire i propri attivi se mantenesse un livello di spesa costante in assenza di entrate petrolifere; (II) il debt ratio, misura convenzionale della sostenibilità di bilancio di un paese; (III) l’Hirshmann-Herfindal Index (Hhi), misura normalizzata dell’effettivo grado di diversificazione di un paese in base alle quote delle esportazioni di non-idrocarburi; (IV) il Truman Score, punteggio che misura la trasparenza e la responsabilità dei fondi sovrani come indice della qualità complessiva delle politiche di governo e di bilancio, ingredienti fondamentali della resilienza in tempi difficili.
L’Efri è la media dei valori standardizzati (ciascuno con media zero e deviazione standard di uno) dei quattro pilastri per ogni anno. L’Efri restituisce un quadro chiaro della resilienza (relativa) nel nostro campione di nazioni produttrici di petrolio. La classifica conferma un fatto ormai consolidato: la Norvegia è il paese ricco di risorse più resiliente del nostro campione, con un livello di resilienza economica e finanziaria di 7,4 deviazioni standard sopra la media.
Questo straordinario risultato è dovuto all’immensa ricchezza dei fondi sovrani norvegesi, alla forza della posizione di bilancio del paese e al punteggio quasi perfetto che ottiene per il parametro della governance dei fondi sovrani. La Norvegia può ragionevolmente considerarsi un’anomalia nel nostro campione, mentre al secondo e terzo posto della classifica Efri troviamo due paesi del Gulf Cooperation Council (Consiglio di Cooperazione del Golfo, Ccg), Emirati Arabi Uniti e Kuwait.
Gli Emirati Arabi Uniti, in particolare, uniscono la più grande ricchezza sovrana (che basterebbe a finanziare i livelli di spesa corrente per vent’anni anche in assenza di entrate petrolifere), con una fase avanzata di diversificazione delle risorse. Il Kuwait non ha trovato una via d’uscita dal petrolio, ma guadagna importanza grazie agli attivi del suo fondo sovrano di lunga durata e all’efficace governance istituzionale nella gestione del patrimonio del fondo.
L’Efri consente anche di identificare i paesi meno resilienti del nostro campione. Due dei paesi sopra menzionati, Iraq e, in particolare, Angola, sono stati colti dalla crisi del Covid-19 in condizioni di estrema fragilità. Le prospettive macroeconomiche dell’Angola si sono recentemente deteriorate, come riflettono le 3,3 deviazioni standard dell’Efri, al di sotto della media del campione. Per questi due paesi, la pandemia potrebbe essere l’ultima goccia per la sostenibilità del debito, e sulle loro agende politiche incomberà pesantemente il problema di una correzione dolorosa.
Anche un gruppo di economie della regione Mena (Middle East and North Africa), tra cui Bahrein, Oman e Algeria, riporta Efri inferiori alla media. Per questi paesi lo scenario è cupo, e sarà difficile per loro ripristinare un percorso di bilancio sostenibile senza un’ancora di salvezza dall’estero. Nella regione, il Qatar, sopravvissuto a un blocco di cinque anni, ha migliorato la propria resilienza economica e finanziaria, conseguendo un punteggio Efri molto prossimo alla media. Più in basso nella classifica troviamo l’Arabia Saudita, in posizione centrale (7), al di sopra della media in parte per le cospicue riserve della sua banca centrale e per il basso livello del suo debito pubblico.
Cambiamenti difficili da prevedere
Concludendo, trend a lungo termine quali il calo dei prezzi del petrolio, il crescente protezionismo e le crescenti barriere ai flussi di capitali internazionali negli ultimi vent’anni hanno arrestato la spettacolare ascesa dei fondi sovrani commodity. Il doppio smacco dello shock del Covid-19 e dello scoppio della guerra rappresenta la quintessenza della sfida ed è foriero di cambiamenti irreversibili difficili da prevedere.
Tuttavia, nei paesi sviluppati e nei paesi del Ccg alcuni fondi sovrani hanno dimostrato che la maledizione delle risorse si può spezzare e che i fondi sovrani si possono progettare in modo atto a diversificare l’economia e garantire resilienza alle prospettive delle nazioni produttrici di petrolio.