Un cuoricino, un votoLa figlia di Meloni e il teorema infallibile del grès porcellanato

Giorgia ha vinto le elezioni quando ha mostrato i ninnoli orrendi sulla sua libreria e quando ha detto quant’era ingrassata in campagna elettorale, perché nei personaggi pubblici, siano essi rivenditori o governanti, cerchiamo uno specchio, cerchiamo noi stessi

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La settimana è iniziata con l’argento di Ginevra e l’oro di Gwyneth, ma – prima di passare alle migliori lezioni su come diventare influencer (o: capi di governo) in poche e agili mosse – farò una cosa invero inusuale. Una divagazione personale su come era finita la settimana precedente.

Domenica, mentre alcuni italiani votavano, io ero a Verona a non saper leggere. Ho sempre, sempre, sempre questo problema: mi preparo lunghi testi che poi davanti al pubblico non riesco a leggere, quindi improvviso cose fuori tema e braso le mie possibilità di farmi eleggere.

Domenica, non mi ricordo proprio in seguito a quale associazione di idee, a un certo punto mi sono lanciata, davanti al pubblico del Festival della bellezza, in una ricostruzione di quel giorno della campagna elettorale in cui Giorgia Meloni si era fotografata davanti a una libreria piena di ninnoli orrendi, e tutti gli intelligenti di Twitter avevano detto che aveva arredi troppo orrendi per vincere, e io proprio lì ero stata sicura della vittoria a valanga.

Perché ho trascorso i tre anni in cui gli italiani hanno più mostrato le loro case, quelli dall’inizio della pandemia, a notare che infissi mostruosi, arredi mostruosi, ma soprattutto pavimenti mostruosi avessero in media gli italiani. È chiaro che più nessuno vuole ambire, ma tutti vogliamo specchiarci, e quindi voteremo quella che, come noi, abbia orridi pavimenti in grès porcellanato.

Mentre lo dicevo ho pensato «oddio, ma chissà in quanti in platea hanno i pavimenti di grès, me li starò alienando?», ma sono andata dritta come un lemming.

Poi, alla fine del mio invotabile monologo, sono andata a firmare copie di libri gentilmente acquistati dalla platea, e a un certo punto una lettrice ha detto che il re era nudo e lei a casa aveva il grès, e da lì tutti, anch’io, anch’io, e io mi sono sentita un mostro d’insensibilità che non capiva l’elettorato e il suo grès. Intanto, fuori da quel teatro, Giorgia Meloni (probabile detentrice di grès) vinceva le elezioni. Fine della divagazione.

«Giorgia è venuta qui la settimana scorsa a fare la manicure. […] È sempre gentile e disponibile. Le abbiamo anche chiesto se potevamo farle una foto con noi a fine trattamento per pubblicarla su Instagram. Lei ha subito detto di sì, sembrava contenta. Conosco poche persone così alla mano, nonostante l’alto ruolo politico. Abbiamo fatto il tifo per lei. Qui le vogliono tutti bene, forse perché si comporta come una cliente comune: non lascia mance, chiama e prende un appuntamento». Il virgolettato viene da Repubblica di ieri, che intervistava l’estetista di quartiere. È interessante come la chiave della vittoria – è-una-di-noi – che l’estetista individua nel non lasciare mance fosse, nel titolo, diventata un’avversativa: non lascia mance ma è una di noi. Meloni conosce l’elettorato – cioè: il mercato – contemporaneo, Repubblica no. 

La cosa più importante, se vuoi il consenso del mercato contemporaneo, sono i figli. Potremmo raccontarci la stronzata che sia un obbligo solo per le femmine, uniche cui viene chiesto come concilino maternità e carriera, ma Leonardo DiCaprio sta lì, eroico e solitario, a dimostrarci che no, il mercato trasecola anche di fronte a un uomo senza figli. Il mercato non si capacita che il quarantottenne DiCaprio non abbia, come tutti i suoi colleghi sex symbol, un bambino in braccio. Che ancora, come fosse un divo del Novecento, passi la vita ad andare a figa.

L’altro giorno ho visto un titolo di giornale che ci spiegava che George Clooney non ostacolerebbe i figli qualora volessero fare il suo mestiere. Il mio terzo pensiero è stato: ma i figli di Clooney hanno cinque anni, non è un tema un po’ prematuro? Il mio secondo pensiero è stato: sono abbastanza vecchia da ricordarmi di quando Clooney era lo scapolone di Hollywood. Il mio primo pensiero è stato: ormai per avere un titolo basta avere un figlio e dire, non so, «alle elementari ha imparato a leggere e scrivere», o altra ovvietà. Di fronte a qualsivoglia bambino siamo tutti la famiglia di Leone Ferragni che lo applaude a ogni ruttino.

Quindi Gwyneth Paltrow, che la deriva influencer del mercato l’ha talmente capita che ha inventato Goop, truffa perfetta per il secolo dei cuoricini, l’altro giorno ha detto che mandare la figlia all’università era come partorirla di nuovo. Applausi, cuoricini, lascia che ti racconti di puccettone mio, siamo proprio uguali, Gwyneth, tutt’e due mamme moltaffettuose.

E Giorgia Meloni, della cui natura di influencer mi picco d’aver scritto prima che ogni dettaglio comunicativo della campagna elettorale la rendesse evidente, lunedì pomeriggio ha postato un biglietto scritto da Ginevra, sei anni, col pennarello argentato (quelli che usavamo noialtre da piccole: Giorgia è proprio come noi, madre ma anche figlia, paninara ma anche donna che lavora).

Cara mammina!

Sono tanto felice che hai vinto

Ti amo!

Tanto

La bambina è evidentemente stata cresciuta con Filippo Tommaso Marinetti come fiaba della buonanotte, ma è anche figlia del suo tempo e del doppiaggese per cui «Ti amo» è intercambiabile con «Ti voglio bene» (abbiamo piallato uno dei pochissimi vantaggi di sfumatura che avevamo, rispetto all’inglese).

«Mammina» come in Mammina cara, è corsa a motteggiare l’internet degli intelligenti, esaurite le battute sui treni che ora arrivano puntuali. Mammina cara è il film con Faye Dunaway, già memoir di Christina Crawford, in cui si raccontava di che pessima madre fosse Joan Crawford, che picchiava la puccettona di mamma sua con le grucce di metallo.

In realtà l’internet degli intelligenti non è scema abbastanza da non sapere che Giorgia Meloni appartiene alla nostra generazione, quella per cui è inconcepibile anche solo uno scappellotto, e che probabilmente Ginevra viene applaudita a ogni bigliettino, a ogni sospiro, a ogni «mamma, da grande voglio fare la influencer» – come tutti i bambini occidentali benestanti nostri coevi.

Ieri, quando Gwyneth Paltrow ha festeggiato i nostri adiacenti cinquantesimi compleanni fotografandosi nuda e spruzzata d’oro, una vittima di Goldfinger ma viva, ho pensato che sì, sono una di voi, sono il vostro specchio, vi somiglio quindi datemi il vostro voto o almeno comprate sul mio sito il vostro vibratore, tutto questo è eccellente tattica di marketing, ma l’idea astratta funziona meglio delle foto.

Perché la cinquantenne Paltrow, biotta e dorata, è pronta per il cinema; la sua coetanea Soncini una foto così potrebbe giusto mandarla alla Meloni per candidarsi al ministero della porchetta.

È vero che nei personaggi pubblici, siano essi rivenditori o governanti, cerchiamo uno specchio; accade però, alcune dolorose volte, ch’esso specchio si riveli deformante.

Perché le acquirenti non ti si rivoltino contro, devi essere meno vanesia (guardate che culo tonico ho, alla mia età), e più furba. Meloni, una Paltrow più scaltra, ha vinto le elezioni quando ha detto quant’era ingrassata in campagna elettorale: «Sembro una mozzarella». Impara, Gwyneth, sennò finisce che l’uovo magico da infilarsi nelle innominabilità lo compriamo altrove.

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