Se facessi la giornalista, l’unica azienda dei cui fatturati m’interesserei è Yondr. Potremmo aver avuto l’idea di consegnare la merce a domicilio e inventare Amazon, certo. Quella di far viaggiare la gente a poco e inventare Ryanair, sì. Ma a chi di noi sarebbe venuto in mente d’inventare morbide borsine in cui rinchiudere l’ossessione dell’epoca che abitiamo?
Venne in mente a un neanche trentenne ex calciatore americano, otto anni fa, dopo aver visto che tutti filmavano un tizio ubriaco. Notò l’ovvio: ehi, i telefoni che filmano sono una pericolosa schifezza, bisognerebbe poterlo vietare almeno temporaneamente. Si mise a produrre borsine nelle quali sigillarli.
Vengo al tuo spettacolo, tu mi sigilli il telefono nella borsina, che mi restituisci così non devo separarmi dalla mia protesi più cara, e io a fine spettacolo vengo da te a farmi riaprire la borsina con apposito attrezzo. Se facessi la giornalista, saprei che percentuale di pubblico scassina la borsina, che viene usata anche in alcune scuole americane, e soprattutto perché non ci siano già mille marche di borsine sigillatelefono: Graham Dugoni (l’ex calciatore) avrà brevettato la serratura, ma se ne potranno pensare di diverse, immagino.
Invece a qualunque spettacolo di comico americano si vada, qualunque spettacolo di milionario che poi intenda rivendersi il filmato professionale su Netflix invece che trovarsi mille filmati brutti su YouTube, lì ci sono sempre degli impiegati di Yondr con le loro borsine grigioverdi. Anche a certi concerti, ma anche lì credo solo americani, e in certe scuole, sempre americane.
Nelle scuole italiane si usano metodi più artigianali. In tutte le scuole italiane, giacché i cellulari che filmano sono un problema sociale, ma i cellulari in generale sono giocattoli che un insegnante non completamente scemo non lascia in mano a un ragazzino – la cui attenzione è precaria per età anagrafica e per epoca storica – durante una lezione.
Ci sono quelli che urlano in continuazione di spegnerlo e metterlo via, quelli che te lo fanno appoggiare sulla cattedra, quelli che lo fanno lasciare in un cesto: non sono una giornalista, ma ho taluni amici insegnanti e ognuno racconta metodi diversi e dice che tra i suoi colleghi ce ne sono di molto diversi. Poi, l’altroieri, a Bologna hanno deciso che questa cosa del non far usare i cellulari ai liceali durante le lezioni fosse una notizia.
La preside (ora le chiamano: rettrici) di uno dei mille licei che ho frequentato nei miei molti anni da ripetente dichiara: «Abbiamo ricominciato l’anno scolastico guardandoci in faccia, senza più mascherina a cui siamo stati costretti causa Covid: un inizio all’insegna della presenza, dell’ascolto, della relazione e concentrazione per tutto il tempo delle lezioni». Povera donna, mica poteva dire: «Questi ciucci, ci manca pure che vadano su TikTok a divagare, già fargli imparare che Napoleone non è contemporaneo di Giulio Cesare è un’impresa».
Prosegue con un linguaggio indistinguibile dalle card delle psicologhe su Instagram: «Senza cellulare i ragazzi non sono continuamente distratti, sono invece più concentrati e in relazione. È un regalo, questo, che stiamo facendo ai ragazzi, ai loro neuroni, ai loro cuori, alla loro affettività e capacità cognitive e di relazione». Cosa volete che me ne freghi della capacità di relazione, rimandatemi a casa puccettone di mamma sua dopo avergli insegnato le equazioni, ché per smanettare sul cellulare ha tutto il pomeriggio.
Il giorno dopo – ieri – Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere definisce la preside (che grazie al cielo non chiama con denominazioni alternative con le quali sentirsi moderni) «un’eroina romantica»; la notizia locale diviene nazionale, e io inizio a pensare d’essermi sbagliata: forse questa cosa che ha annunciato la preside del Malpighi, che ora chiudono i cellulari di allievi e professori in un armadietto, è originalissima e rivoluzionaria e i miei amici mi hanno sempre mentito, e il Malpighi fece bene a bocciarmi giacché non capisco niente nientissimo.
Sfoglio i giornali. Il dorso bolognese di Repubblica titola a tutta pagina «Cellulari vietati a scuola». Non si sa di chi sia la dichiarazione (con le virgolette nei titoli italiani non si sa mai chi dichiari: di solito nessuno), ma è evidente che la rivoluzione è in atto. Senonché, nell’intera pagina dedicata all’interno a questa clamorosa notizia, l’articolo portante inizia così: «I ragazzi dei Salesiani, all’istituto di Castel de’ Britti, sorridono: “È da anni che ce lo tolgono”». Prosegue tutto così, è inutile vi citi i casi uno per uno: sotto il titolo «Presidi e studenti si dividono» ci sono ben due liceali che dicono che insomma, all’intervallo potrebbero pure restituirglielo (eh ma poi come la mettiamo con l’affettività: la preside evidentemente aborre il sexting).
Il Resto del Carlino scrive che ritirare il cellulare ai puccettoni di mamma loro «è una realtà consolidata», e invita a non costringerli a ripetersi: «Basta sfogliare il Carlino a ritroso per scoprire che nel 2011», e giù con una sleppa di esempi, tra cui una classe del liceo Righi che una prof d’italiano fece sconnettere per una settimana intera ventiquattr’ore al giorno (dice il Carlino che i puccettoni di mamma loro le furono grati e riscoprirono carta e penna: per fortuna non sono una giornalista, così non devo indagare su quanti Pietro Maso uscirono dall’esperimento).
Nessuno sembra aver scoperto l’apposito attrezzo per sigillare i telefoni (non siamo mica gli americani), sennò sai quanti scoop dedicati alle borsine sigillate sui giornali italiani, capaci di dedicare intere pagine a dirci «clamoroso, i cani mordono gli uomini ma non viceversa, a scuola non si usano i telefoni, ormai da più di dieci anni, e ve l’avevamo pure già detto».