E se invece di parlare di Gorbaciov al Sanremo del 1999 (vinto dall’unica canzone brutta di Anna Oxa), se invece di parlare di Gorbaciov eletto segretario del Pcus tre mesi prima che Sting lamentasse che in America e in Europa c’era un crescente senso di isteria, se invece andassi fuori tema come facevo sempre a scuola e parlassi dell’estate di quarant’anni fa?
L’estate dei miei nove anni nessuno sapeva chi fosse Gorbaciov. Il segretario del Pcus era Breznev, quello del Pci era Berlinguer, il problema della guerra fredda non me lo sarei posto per altri tre anni, quando Sting incise Russians e passammo l’estate a canticchiare che speravamo anche i russi volessero bene ai loro figli.
L’estate dei miei nove anni avevo una tuta rosa, di Fiorucci, con gli angeli sulla felpa. Le estati italiane non erano ancora climaticamente simili a quelle di Bangkok: si poteva persino indossare la tuta, di sera.
L’estate dei miei nove anni nelle arene si andava a vedere Innamorato pazzo, che l’inverno aveva incassato uno sfracello, e non ci eravamo ancora stancati di rivederlo, e – siccome lo streaming non c’era neppure nelle idee più spericolate degli autori di fantascienza – se un film ti piaceva lo vedevi in prima visione, e poi in seconda, e poi al parrocchiale, e poi all’arena estiva.
(In Innamorato pazzo Adriano Celentano era un autista d’autobus che rapiva Ornella Muti per non lasciarle sposare un altro tizio. Oggi verrebbe accusato d’essere un apologo dello stalking).
L’estate dei miei nove anni alla sinistra non faceva schifo chi si divertiva, quella dinamica così favolosamente illustrata da Dov’è Mario?, e quindi, benché Bologna fosse governata dal Pci, la me novenne e la sua tuta di Fiorucci poterono andare in piazza Maggiore a saltare mentre Miguel Bosé cantava Bravi ragazzi. In playback, naturalmente, perché neanche le spalline imbottite sono entelechia degli anni Ottanta quanto il playback.
La manifestazione alla quale la me novenne si strappava i capelli per Miguel Bosé (le signore della mia età non hanno avuto neanche un sex symbol eterosessuale: che impressione volete che ci faccia l’identità di genere), quel raduno di piazza lì si chiamava Vota la voce.
Serviva a chi non era stato così fortunato da essere vicino a qualche tappa del Festivalbar. Certo, al Festivalbar s’impegnavano di più, e Loredana Berté cantava vestita da sposa, ma comunque veniva anche da noi a fare Non sono una signora, e non c’è davvero molto di più che una bambina in tuta rosa possa chiedere alla vita che essere contemporanea d’un disco stupendissimo del quale non capisce una parola: ci avrei messo trent’anni a rendermi conto che quella prima della vita balera era una carretera, mica una carne intera.
Era un’opportunità, mica un limite: la tensione verso quel che non è per te è l’unica cosa che ti faccia crescere, mica quest’epoca infelicitata dalla Pixar in cui qualunque produzione cinematografica o musicale o sartoriale è a misura di minorenne, e sono gli adulti ad adattarsi.
Nei Festivalbar e nei Vota la voce dell’estate dei miei nove anni c’era roba che ancora oggi se la fanno nella serata delle cover di Sanremo saltiamo tutti sui divani, e io mica lo so se questa estate dei miei quarantanove anni stia producendo altrettante indimenticabilità. Nelle piazze dove le bambine in Fiorucci si strappavano i capelli c’era Claudio Baglioni che cantava Avrai e Ron che cantava Anima, c’erano Al Bano e Romina che facevano Felicità e Marco Ferradini che faceva Teorema, e la Domenica bestiale di Concato, e Un’estate al mare di Giuni Russo: era l’estate migliore per avere nove anni.
Chissà se oggi Vota la voce e il Festivalbar sarebbero quella macchia di Rorschach che è il JovaBeachParty: una cosa che la guardi e se mi dici cosa ci vedi dentro io ti dico se sei uno con cui valga la pena fare conversazione. Chissà se il playback consuma più elettricità che cantare dal vivo e quindi ci sarebbero polemiche su quello, o su cos’altro. Beh, su Teorema, naturalmente: «prendi una donna, trattala male» varrebbe qualche decina di editoriali indignati.
Chissà se oggi un Lucio Dalla regalerebbe a un Ron un capolavoro come Anima o, come l’aristocratica toscana di Sabina Guzzanti, si baloccherebbe un po’ con l’idea d’essere generoso, ma poi «si tenne». Chissà se oggi una novenne potrebbe appassionarsi al disco in cui c’era Non sono una signora, disco la cui più bella canzone a un certo punto diceva «giusto ai piedi del letto, un giornale: la questione d’Algeria», che la me novenne sapeva a stento che da quelle parti c’era un Valtur, perché in casa giravano dei dépliant. Chissà quanti autori di fantascienza ci vogliono, oggi, per concepire un disco in cui non solo c’è Non sono una signora, ma non è neppure la canzone più bella del disco. Chissà quante carretere ci stiamo perdendo, coi parolieri analfabeti che hanno sostituito Fossati, e quanti Festivalbar in abito da sposa stiamo delegando agli sponsor, con la dittatura degli stylist.
Dicono che il più preoccupante segno di vecchiaia sia sospirare «ah, ai miei tempi». Ma a me al massimo viene da sospirare «poveri voi, come non v’invidio».
L’estate dei miei nove anni stava tra i due Sanremo in cui Vasco Rossi andò a dimostrare che Sanremo è roba per rockstar solo se già affermate. (L’inverno dei miei ventisei anni a Sanremo sarebbe arrivato Gorbaciov, a ribadire il concetto). Poi arrivò l’autunno, morì Breznev, al cinema uscì E.T., e una lavatrice sbagliata mi rovinò la tuta di Fiorucci.