Non si vedono più le stelleFalsi miti sull’inquinamento luminoso e sul nostro bisogno di luce

Ora più che mai, alle porte della stagione invernale e nel pieno di una crisi energetica, è diventato necessario parlare (seriamente) delle conseguenze della sovrailluminazione. Ci ha pensato lo scrittore Wolf Bukowski, che abbiamo intervistato

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Dov’è finito il buio della notte? Nella sua ultima fatica letteraria, “Perché non si vedono più le stelle” (Eris Edizioni), lo scrittore Wolf Bukowski – guest blogger del sito dei Wu Ming – cerca di trovare una soluzione a questo dilemma. Partendo da un dato, 99,6 per cento, corrispondente alla fetta di popolazione italiana che «ha su di sé un cielo il cui aspetto naturale è perduto». Vale a dire con una luminescenza di almeno il 50% superiore a quella di un cielo incontaminato.

Ma ci sono altri numeri, tanto interessanti quanto inquietanti. Ad oltre tre quarti degli abitanti della Penisola è preclusa la vista della Via Lattea; quasi il 30 per cento vive in centri urbani tanto luminosi da non permettere l’attivazione dei bastoncelli, i fotorecettori della retina che assicurano la visione notturna. 

Allargando i nostri riferimenti spaziali, secondo una stima pubblicata nel 2021 da Remote sensing e condotta su immagini satellitari, l’inquinamento luminoso sarebbe aumentato, a livello globale, del 49 per cento tra il 1992 e il 2017. Dato che tocca il 270 per cento e il 400 per cento (se riferito a regioni specifiche) considerando anche le luci a led, che emettono una luce invisibile ai sensori dei satelliti. 

«A mio parere – ha spiegato Bukowski a Linkiesta – non è un caso che gli anni dell’aumento esponenziale siano esattamente gli stessi della piena affermazione del neoliberismo, con le sue promesse di godimento perpetuo, 24 su 24, e, come contraltare, con le paure enormi che scatena, tra le quali, quella del buio». 

La sovrailluminazione, illustra l’autore nel libro, ha ripercussioni sull’intera biosfera. Il “mal di luce”, infatti, nuoce al clima e al Pianeta – implicando un incredibile spreco di energia -, alla salute delle persone – compromettendo la qualità del sonno, della flora batterica e incrementando l’incidenza di malattie metaboliche – e alle forme di vita non umane, dalle foche alle falene e alla vegetazione acquatica. Inoltre, l’eccesso di luce artificiale alimenta il mito della “sicurezza” facendo credere che ogni angolo buio nasconda un pericolo. Rendendo i luoghi illuminati “decorosi”, cioè escludenti. 

Quanto è grave e diffuso, oggi, l’inquinamento luminoso?
«La quasi totalità della popolazione europea abita sotto cieli notturni inquinati. La principale fonte di informazioni che abbiamo a disposizione, l’Atlante Mondiale dell’Inquinamento Luminoso di Fabio Falchi, ci dice che il nostro, insieme alla Corea del Sud, è il Paese in cui l’inquinamento luminoso è più diffuso sul territorio. Il che non significa ovviamente che sia grave allo stesso modo in ogni luogo all’interno dei confini. Ci sono territori, penso alle aree meno popolate della Sardegna ma non solo, da cui si può ancora godere di un cielo bellissimo».

Quali sono gli impatti della sovrailluminazione sull’intero Pianeta?
«L’alternanza di luce e buio, con la sua variabilità stagionale, è un elemento costitutivo dell’evoluzione dei viventi sulla Terra. Ci sono animali notturni e animali diurni; ci sono elementi di orientamento che hanno a che fare con l’illuminazione. Le tartarughe, per fare un esempio noto, appena venute al mondo cercano il mare orientandosi con la sua luminescenza. Se sulla terraferma c’è troppa luce artificiale luci le tartarughine vi si dirigono, con una marcia verso la morte. Oppure, ancor più comunemente, sotto i nostri troppi lampioni le falene roteano fino allo sfinimento, e a causa di questa danse macabre non impollinano i fiori. Per quanto riguarda noi, la pretesa folle della nostra società di essere attiva 24/7 è fortemente intrecciata al problema dell’inquinamento luminoso. Nel regime ipercapitalista attuale, la nostra specie ha perso ogni rispetto verso i propri determinanti biologici, figuriamoci per quelli di altre specie».

Quali sono i falsi miti che caratterizzano il nostro “bisogno di luce” e perché continuano ad essere attendibili?
«Gli elementi in gioco sono tantissimi: ho voluto analizzarli, perché le certezze vanno scomposte nei loro fattori, ma mi guardo dal dare ricette facili. A volte la luce serve per un qualche tipo di sicurezza, ma quasi sempre ne basterebbe molta meno di quella sprecata nelle nostre città. Anche il tipo di illuminazione conta: i led freddi abbagliano e servono solo a dare l’idea di un giorno infinito, mentre sarebbero sufficienti molti meno lampioni e con una luce più calda. A volte, la luce non serve proprio a nulla di nulla, e nella sterminata provincia italiana sono illuminate stradine in cui non passa mai nessuno a piedi, e pochissime macchine. Per non parlare dell’assurdità delle luci meramente decorative installate da privati e da amministrazioni. Ci sono luci di Natale che restano accese tutto l’anno, spesso presso negozi o ristoranti. Il saggista Cobol Pongide, in una conversazione che abbiamo avuto, riconosce in questo una “natalizzazione” della società. Come se fosse sempre festa. Che paradossalmente vuol dire che non è mai festa per davvero, oltretutto».

Perché i luoghi illuminati ci sembrano più decorosi, quindi “escludenti”?
«Nell’estetica pubblica contemporanea, i luoghi sovrailluminati – lounge bar bianchissimi o piazze “riqualificate” che siano – sono i luoghi di chi ha capacità di spesa. Sono i luoghi del turismo, o di chi può permettersi di vivere “da turista” la propria città. Se alla radice della moda cromatica del bianco urbano c’era forse un inconsapevole razzismo (essa emerge negli Anni ‘10, quando il discorso pubblico era egemonizzato dalla paura dell’immigrazione africana), la connotazione che ha assunto oggi è spavaldamente classista. Chi non ha capacità di spesa viene sospinto via dalla luce, dalla “bianchezza”, verso il buio, la “clandestinità”, gli alloggi di fortuna, la miseria. Però, allo stesso tempo, la “bianchezza” cioè la “rigenerazione urbana”, la sovrailluminazione, gli affitti turistici e i localini “cool”, si spingono sempre oltre i propri confini, e dai centri cittadini penetrano e conquistano le periferie. Agli esclusi vengono sottratti così persino i posti dove “nascondersi”, dove conquistarsi una notte indisturbata, o la possibilità di un modesto guadagno. Il loro destino così “illumina” e porta agli estremi, per così dire, un destino comune a chi si trova male nella nostra società: quello di non avere più un posto dove “nascondersi”, un posto dove sopravvivere ai margini. “Chi non sa stare a tempo, prego andare”, cantava Enzo Jannacci nel 1980, ovvero nella preistoria della nostra era neoliberale. Quarant’anni dopo chi non sa stare al ritmo del capitalismo sfrenato non trova neppure più un posto in cui farsi da parte». 

Perché dire che la luce non è sempre un bene pare “un’eresia necessaria”?
«Perché abbiamo bisogno della notte, del buio, dei limiti alla visibilità di tutto e alla funzionalità di tutto. La notte dovrebbe essere il momento dell’intimo, del ripensamento, del rapporto con le parti oscure, con le parti impossibili da mettere al lavoro, o da mettere a profitto. Con le parti irriducibili alla competitività o all’onnipresente “comunicazione”. È noto, invece, come l’amministratore delegato di Netflix abbia detto che il suo più temibile concorrente è il bisogno di ore di sonno delle persone. La biologia umana è così dichiarata incompatibile con il capitalismo contemporaneo, ma il capitalismo si propone di cambiare la biologia, e mai e poi mai di limitare sé stesso». 

“Cieli neri”, “Buio”, “Luce sprecata” e anche l’associazione “CieloBuio”: come mai è diventato tanto importante, per non dire necessario, parlare di inquinamento luminoso?
«Alla fine, nel buio ciascuno vede ciò che vuole vedere. Il buio è una possibilità di vedere, certo le costellazioni ma non solo, che ci viene sottratta dall’eccesso di luce. C’è qualcosa di bello se sta crescendo l’interesse per il buio. Potrebbe trattarsi di un ancora “oscuro” desiderio di qualcosa di meglio, di qualcosa di irriducibile a ciò che ci vende il nostro orrendo sistema economico». 

Siamo ancora in tempo per riuscire a vedere di nuovo, e in tutta la sua bellezza, il firmamento?
«Paradossalmente, l’inquinamento luminoso potrebbe essere ridotto fortemente nel tempo di una notte. A differenza di quello atmosferico o radioattiva, non ha una sua persistenza. Apparentemente, è quindi più semplice risolverlo. Ma solo, appunto, apparentemente. Inoltre, c’è un altro inquinamento luminoso, quello “dall’alto” che viene dai riflessi di luce dei satelliti e dei rottami spaziali che stiamo spargendo in cielo, che si annuncia come duraturo e crescente. La questione è intricata. Non agire certamente la complica sempre di più. Sono invece pessimista sul fatto che la crisi energetica possa essere “in automatico” risolutiva per l’inquinamento luminoso. Le emergenze non possono nulla contro i paradigmi radicati, e quello di avere tanta, troppa luce per sentirsi “sicuri” è di certo un paradigma radicato. Quello che serve è, appunto, cambiare questo paradigma». 

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