La filosofia del suono
Quello che deve caratterizzare un club è la qualità del suono.
Null’altro.
Così dev’essere un club.
Un contenitore ideale, concettuale, dice Coccoluto, un cubo
vuoto, nel quale immettere la musica, che è il messaggio. Tutto il resto è una sovrapposizione inutile. Che serve a distrarre dal potere assoluto del suono.
Il Ministry, appunto.
La maniera di intendere la discoteca che domina la scena notturna italiana, oggi come negli anni Novanta, è la filosofia del divanetto e dello specchio (o della cubista, più o meno vestita) e dei superospiti televisivi. Il nome del dj non è così importante. La discoteca è ormai un luogo strutturato con privé, tavoli, elementi che tendono a limitare il concetto «democratico» di annullarsi, perdersi nella musica, immergersi nel ballo facendo scomparire ogni tipo di divisione (sociale, sessuale…)
Un tempo era anche una necessità: non esistevano spazi ricercati e bisognava arrangiarsi. Ma noi la vivevamo come uno stimolo e non come una limitazione.
Coccoluto è un teorico della dance.
A lui non servono le belle strutture, ma una stanza con un impianto sopra la media dei sound system che si ascoltano nei locali. Il ballo deve sempre essere il contenuto centrale della notte in un club.
Con l’avvento della house si compie il ritorno all’essenziale, la riscoperta dei valori alla base di una festa: è la cultura del dopo rave, quando il successo di un evento era legato non solo alla qualità dei dj, ma anche alla scelta accurata di luoghi diversi, di scenografie poco usuali, dai parcheggi ai depositi di alimentari, agli hangar degli aeroporti.
Bisognava portare l’esperienza del rave, difficilmente attuabile per l’incapacità di chi organizzava a fronteggiare emergenze come l’invasione di migliaia di ragazzi, all’interno del club. Era la nostra sfida: consolidare una «politica» basata sui contenuti musicali.
Il rapporto con i rave
Il fenomeno dei rave si affacciò in Italia negli anni Novanta sull’onda dello scandalo dei primi rave inglesi. Lo scoprimmo attraverso i racconti dei viaggiatori, dei travellers della dance, che erano stati in Inghilterra e ce ne parlavano. Ma erano reportage nebulosi. Non capivamo esattamente di cosa si trattasse. Migliaia di ragazzi si muovevano, attraversavano nazioni, solcavano campagne e autostrade non per andare a un concerto rock, ma per ballare. E in quei luoghi non c’era un palco con una band che suonava, semplicemente la cabina di un dj. Era lontano da ogni immaginazione che diecimila adolescenti avvolgessero due giradischi e un mixer. E i racconti degli italiani che a Londra avevano provato l’esperienza del rave ne dilatavano la mitologia.
All’epoca il club aveva una dimensione strettamente limitata al territorio. Non si andava a ballare in un’altra città, il locale era un luogo di incontro, un’estensione della propria casa, un posto da comitiva. L’unica realtà in cui esisteva una vera «scena» era la riviera romagnola, dove la densità delle discoteche rifletteva soprattutto un sistema quasi industriale, dal bagno in spiaggia alla pensione, al ballo.
Poi, le regole del rave furono fissate: una lunga sequenza di dj e una durata infinita, se paragonata a una normale serata in discoteca.
Diventai un dj da rave per pura passione «nomadica» e tecnologica. A differenza dei tanti colleghi italiani che in quegli anni si erano avvicinati alla celebrità, ero l’unico a non avere una discoteca fissa. Cambiavo club con frequenza ed ero più disponibile degli altri. E poi avevo comprato, a rate, il primo vero oggetto del desiderio per chi faceva il mio mestiere: il telefono cellulare. Questo mi rendeva reperibile ovunque, sempre, e mentre gli altri dj erano legati a uno spazio fisico, a me nulla impediva di prendere le mie borse dei dischi, salire in macchina e viaggiare.
Il rave era una realtà caotica, una cultura dove la relazione tra musica e droga era fortissima: due concetti complementari. Una realtà, per i miei gusti, troppo inglese, estranea alla mia visione del club, ma il fascino delle moltitudini di ragazzi in adorazione era irresistibile.
Dovevo provarlo.
L’aspetto più innovativo del rave era la libertà assoluta di espressione, che si traduceva in una ricchezza di scelte musicali impossibili da portare nelle sale di una discoteca. Ma la totale improvvisazione ebbe vita breve: i rave si caratterizzarono subito come territori della techno.
La techno era allora il suono contrapposto a tutti gli altri, un suono da «setta». Chi la faceva e l’ascoltava, per definizione e scelta era in aperta opposizione con le altre sfere musicali. Una sorta di linea ritmica di demarcazione: chi la superava, diventava parte di una comunità separata.
I technomaniaci si consideravano degli eletti, come se dal punto di vista musicale e culturale vivessero in un limbo che permetteva loro di guardare con sufficienza il resto del mondo.
E gli altri generi.
Non ho mai amato i BPM [«beep per minute»] esasperati, velocissimi, frenetici, basati su un’ossessione ripetitiva, chiaramente legata al dilagare delle droghe sintetiche. Così mi invitavano ai rave con una funzione specifica: aprire o chiudere, con il mio set.
Le mie selezioni musicali venivano usate in apertura per anticipare gli eccessi elettronici che sarebbero seguiti, oppure all’alba, per riportare serenità con suoni più vellutati. Potevo perciò mettere la musica che amavo, lontana da quello che sarebbe accaduto nelle due ore successive quando sulla pista si sarebbero scatenati i ritmi più brutali, suono che la mia immaginazione nemmeno considerava. Era davvero un altro mondo.
Con questa scelta conquistai il rispetto della generazione dei raver, la tribù della techno (musicalmente diversa dall’elettronica di oggi) che aveva preferito separarsi dalla scena delle discoteche.
La techno era davvero contrapposta alla house, musica invece più melodica, armonica, con parti cantate in primo piano e strumenti musicali tradizionali che incontravano le batterie elettroniche. Basti pensare ai sensuali pianoforti della house di Chicago, un contrappunto melodico che è il segno di distinzione del genere. Ma house e techno erano due comunità contrapposte anche da un punto di vista ideologico, proprio come era accaduto per la disco e il rock, con la differenza che stavolta il dibattito era interno alla club culture. Uno scontro durato un decennio e azzerato soltanto da poco, avvenuto nell’Italia delle squadre di calcio, dei colori e dell’attaccamento alle proprie piccole certezze.
I rave italiani degli anni Novanta erano in verità molto ingenui. Nessuno aveva esperienze organizzative adeguate, nessuno pensava che potesse essere sviluppato (come era successo in Inghilterra) un rapporto di collaborazione con le istituzioni, e non c’erano garanzie di sicurezza per chi andava lì a ballare. Quando accettavamo di mettere dischi in un rave, noi dj sapevamo che non vi era alcuna certezza che l’evento si svolgesse, perché la polizia poteva chiuderlo prima ancora che fosse iniziato. Ma a un rave arrivavano migliaia di ragazzi, e quando si fa ballare così tanta gente i brividi sulla pelle non ti lasciano, dal primo solco sino a quando cedi la consolle a chi è in scaletta dopo di te.
Per i dj il rave ha avuto una grande importanza anche da un punto di vista etico. È stato forse l’unico evento capace di farti interrogare su cosa significa veramente questo mestiere. E su cosa significa il dj per i ballerini. Di certo il nostro era un punto di vista privilegiato. Trovarsi sul palco come le grandi star del rock permetteva di osservare le facce, i desideri di persone molto differenti da quelle che si vedevano in una discoteca.
C’erano tanti tipi di consumatori di rave. La sfida era trovare un sistema di relazioni che potesse raggiungere tutti, al di là delle diversità comportamentali; possibilità, questa, che il club non offriva, perché la discoteca era più selettiva nella proposta e anche nell’accoglienza. Credo che attualmente succeda soltanto a Ibiza che in un club si trovino a fianco, sulla stessa pista, tipologie umane così varie e interessanti. Hanno in comune una sola aspirazione, un solo desiderio: il divertimento, il puro edonismo.
Il rave era un’avventura nuova per tutti. Per chi organizzava, per chi metteva i dischi, per chi frequentava l’evento. Una scoperta continua. La differenza con Ibiza è tutta qui.
Nelle Baleari esiste, senza paragoni nel mondo, un’ipotesi di «divertimento preventivo». Significa che si arriva sull’isola con uno stato d’animo già predisposto al piacere, come se debba obbligatoriamente succedere. Come si trattasse di un valore, di un optional che si acquista nell’agenzia di viaggi nel momento in cui si prenotano l’aereo e la settimana tutto compreso.
Da “Io, dj. Perché il mondo è una gigantesca pista da ballo”, di Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda, a cura di Gianmaria Coccoluto, Baldini+Castoldi, 176 pagine, 18 euro