«Party like it’s 1999»Il disco con cui Prince spiegò come divertirsi in attesa di una catastrofe

Quarant’anni fa, il musicista che ha plasmato gli anni 80 pubblicò un doppio LP che colse lo spirito del suo tempo, così simile al nostro: fare festa per esorcizzare la tragedia. Il funk e il soul si mischiano con la new wave e il rock per far ballare chiunque ascolti. Read&Listen

Prince 1999

Prince, “1999” – 1982
Ci sono momenti nella Storia, o meglio nella percezione della Storia e delle paure che porta con sé, che ritornano. Quarant’anni dopo, un disco come “1999” sembra improvvisamente di nuovo un segno dei tempi, sinistramente attuale. Il contesto nel 1982 era quello di uno scontro molto duro fra America e Russia, sull’orlo della guerra nucleare. Leggendo le cronache di allora, il problema non sembrava se ci sarebbe stato uno scontro nucleare, ma quando.

La soluzione, per Prince, è nella title track del suo quinto album: to party, fare festa per prendere in giro la paura del reciproco annientamento e dimenticare quello che potrebbe succedere. Fare festa come maniera di esorcizzare, evadere, forse scampare metafisicamente alla tragedia. Il messaggio di fondo lo annuncia la voce robotica e rallentata all’inizio, «Non voglio farvi del male. Voglio solo che vi divertiate», e il brano è la sua maniera di dire che se «tutti hanno una bomba/e potremmo morire in qualsiasi momento», divertiamoci e non stiamo a preoccuparci. Se l’anno duemila, quello del Millennium Bug e di tutte le paure millenariste, potrebbe essere l’anno della Bomba, «let’s party like it’s 1999», come fosse (ancora) il 1999, e non pensiamoci più:

«Stavo sognando quando ho scritto questo
Perdonatemi se va per la tangente
Ma quando mi son svegliato stamattina
Avrei giurato che era il giorno del giudizio
Il cielo viola, le gente che correva ovunque
Cercando di scappare dalla distruzione
Ma la vita è solo un party e i party non sono fatti per durare
La guerra è tutto intorno, la mia mente dice ’preparati a lottare’
Ma se proprio devo morire
Ascolterò il mio corpo stanotte
Dicono 2000, zero-zero, oops, tempo scaduto
Allora stanotte farò festa come fosse il 1999…»

Dopo essersi lentamente costruito, strati su strati di batteria elettronica, synth e tastiere e chitarra ritmica con il suo clima di indifferenza verso la Minaccia, il brano si ferma di colpo, dopo che la voce di Lisa Coleman dice, in tono infantile: «Mamma, perché tutti hanno una bomba?». Prince non è un cantante di protesta, se mai di istinto, e quindi non aspettatevi che negli altri brani di questo doppio lp dia risposte o cerchi approfondimenti sul tema. La sua filosofia inizio anni 80 è quella, edonista e ’party up’ (come il suo hit nell’album precedente), a dispetto di tutto. 

E se party deve essere, sicuramente Prince sa come organizzarlo e gestirlo, che è poi quello che fa con i suoi dischi, scritti, suonati e prodotti in totale autonomia e controllo. Il ragazzo di Minneapolis, sperduta città del Nord dove la popolazione di colore è minima e la musica dominante è il rock, è una eccezione – nel senso di eccezionale – e lo ha dimostrato nei quattro album che ha già pubblicato. Nato in una famiglia dove la musica scorre -mamma Mattie Della cantante, padre John Lewis Nelson pianista e titolare di una jazz band- il suo nome di battesimo è quello d’arte del padre, Prince Rogers. Da piccolo ha attacchi di epilessia, e un giorno va dalla mamma e le dice «mamma, non starò più male». «Come mai?», chiede lei, «Perché me lo ha detto un angelo». 

Ha le stimmate del piccolo Mozart, che è il personaggio storico a cui assomiglia di più per talento, stravaganza, estro, creatività strabordante: incomincia a suonare a due anni, a scrivere brani a sette, impara da solo a suonare chitarra pianoforte e batteria, al liceo sta in una band, è ancora un teenager quando firma il primo contratto con la Warner Brothers. Nel frattempo i genitori si sono separati, lui ha vissuto un po’ con entrambi, poi dai vicini, le sue prima amicizie – Andre Cymone, Morris Day – faranno presto parte della sua cerchia e saranno le sue prime produzioni.

Ha dentro di sé un’idea visionaria della sua musica, e ha una tecnica senza limiti per mettere in pratica i suoni che gli girano in testa. Ha un’energia quasi sovrannaturale, nel tempo saranno leggendarie le sue sedute di registrazione, anche giorni filati senza dormire e senza mangiare («mi fa venire sonno»), così come un giorno lo saranno le sue giornate in tour: prove di tre ore, concerti più o meno della stessa lunghezza, e dopo-concerti in piccoli club locali, altre due o tre ore di jam e rivisitazioni in chiave diversa dei suoi brani. Non fa uso di stimolanti, il suo carburante è il fuoco sacro: l’ambizione e la determinazione, il suo magnetismo animale e la infinita competenza e talento che ha dentro. 

Il percorso comincia presto, il primo “For You” esce nel 1978 quando ha 20 anni, col secondo “Prince” arriva già in classifica nei singoli e negli album. “Dirty Mind” esce nel 1980 e, come il nome sottolinea, è il primo manifesto esplicito della sessualità che vuole proiettare, una sorta di autobiografia dei sensi ammantata in una fantasia sessuale. Come ben scrive Stephen Erlewine su All Music, «è un sensazionale, audace amalgama di funk, new wave, R&B e pop, spinto da una sessualità lasciva e dal desiderio di scioccare». È il suo primo piccolo capolavoro, un tour de force di sesso e musica, funk duro con orecchiabili melodie, ballate soul morbidissime e sprazzi di chitarra che sconfinano nell’heavy metal. E se tutto questo sembra troppo e troppo diverso, beh, il mantra di Prince è ’senza barriere’, di nessun genere. E non solo musicali, vedi ’When You Were Mine’, orecchiabilissima, Blondie e James Brown  insieme, delizioso brano new wave su un menage a trois bi-sessuale: «Un Baccanale Romano ambientato nel CBGB», ha scritto Pitchfork. 

A ruota arriva “Controversy”, altro titolo che descrive bene la sua voglia di spiazzare e sottolineare le cose che dividono: la title track, che parla della dualità che fa nascere le controversie, «Sono bianco o nero? Etero o gay? Credo in Dio, credo in me stesso? Controversie» ha il Padre Nostro recitato al centro. Sono i due binari sui quali si muoverà per tutta la carriera: il sesso, esplicito e senza freni da una parte (soprattutto nei primi album), il sentimento religioso e lo Spirito che ne bilancia il lato più carnale. Nelle note ringrazia Dio, nei testi infila passaggi assolutamente osceni che daranno materia per creare quelle etichette di ’vietato ai minori’ che caratterizzeranno da quegli anni in poi i testi di molta black music.

Fa molto parlare di sé, e piace molto anche ai suoi colleghi: gli Stones – sempre sul pezzo, quando si tratta di talenti neri – lo invitano ad aprire il loro tour dell’81: vestito come sulla copertina con un trench e un sospensorio nero, le pose e le mosse ambigue, il suo stile non verrà molto apprezzato, e gli tireranno qualsiasi cosa. Come sempre, Prince va dritto per la sua strada. Vede più lontano. Se il personaggio è vestito in maniera provocatoria e il suo atteggiamento di sexyness è senza ritegno, lo scopo è quello di fare una musica che rompa i tabù e le convenzioni, che sia incredibilmente innovativa ma allo stesso tempo accessibile a tutti.

Quando arriva a questo suo quinto album, il suono e la formula sono ormai ben definite, così come la capacità non solo di cambiare genere, ma di farlo con la velocità di uno schiocco delle dita. Nel suo libro ’My Time With Prince’ lo racconta bene Dez Dickerson, il chitarrista della sua band dal vivo, i Revolution, e che compare con un breve assolo su ’1999’ (il resto Prince lo fa tutto lui): «La sua abilità nel saltare da genere a genere è stupefacente. Non riesco a pensare a nessun altro artista che possa passare da un r’n’b tipo quiete dopo la tempesta a un lascivo funk meccanico, da un rock a manetta da stadio a una new wave alla Gary Numan fino a una fusion tipo Mahavisnu Orchestra senza perdere il proprio pubblico e con totale autorità. Il ragazzo era davvero un maestro». 

Michael Howe, che dopo la sua morte nel 2016 ha gestito la mitologica vault, il misterioso forziere, per così dire, con tutti i suoi archivi e le centinaia di brani ancora inediti, dice: «La sua abilità di spostarsi da un genere all’altro con risultati sempre convincenti non mi sorprendeva, conoscendolo», e aggiunge che le sue radici erano evidenti nello stile chitarristico fin dai suoi primi album: «Si sente quanto amasse lo stile di Carlos Santana e, sul lato ritmico, le cose di James Brown, la sua idea di groove. Quelle influenze sono rimaste, ma puoi sentire come abbracciasse le novità a man mano che veniva in contatto con musiche diverse. Certamente lo mettevo a conoscenza del rock, tanto più quando è emerso il punk. Era la quintessenza della spugna musicale, e questo si vedeva a man mano che la sua maniera di suonare cambiava e si evolveva».

Fra le influenze Howe non cita Jimi Hendrix, che a mio parere sia da un punto di vista estetico che tecnico ha contribuito moltissimo alla formazione del suo modello, ma è vero che quello stile un po’ acido, psichedelico, è più evidente a partire da “Purple Rain”. Del resto ’nella spugna’ puoi ritrovare un po’ di tutto, dalla new wave ironica e futuristica dei Devo ai ritmi electro del rap di Afrika Baambaata and the Soul Sonic Force. È una fusione della tradizione nera con l’innovazione tecnologica bianca che nessuno come lui, in quel momento, ha nelle corde. Solo Stevie Wonder, in maniera più dolce, e i Parliament Funkadelic hanno esplorato quel confine di contaminazione.

La musica è diretta, orecchiabile e accessibile, ma se la vai a sezionare, capisci come sia una costruzione minuziosa, un lavoro di studio nel quale assembla strato dopo strato le parti ritmiche e melodiche, suonate tutte da lui. “1999”, a differenza degli album precedenti, è un album basato sui sintetizzatori, che potrebbe avere come risultato una freddezza di fondo che in realtà essendo intrisa nella negritudine meccanica non è mai, se non volutamente. Per cui, questo one-man show è apocalittico e sexy, messianico e frivolo, funky e melodico, lussurioso e vulnerabile, incredibilmente innovativo e altrettanto risolutamente pop.

Prendete quello che è stato uno dei singoli-hit, la fantastica ’Little Red Corvette’, la celebrazione di uno dei simboli dei desideri dei ragazzi americani, la Corvette, tinta di rosso-lussuria. Ispirata, dice Lisa Coleman, dopo che Prince si è addormentato nella sua Mercury Montclair Marauder rosa dopo una notte intera in studio, esce dalla nebbia di un suono ovattato e arriva in primo piano: pop deliziosamente funky e metafora sexy al 100%, tutta di doppi sensi, nella quale non è il conquistatore ma il sedotto, un ragazzo insicuro e vulnerabile di fronte a una che è troppo per lui:

«…Immagino che avrei dovuto chiudere gli occhi
Quando mi hai guidato fino a dove i tuoi cavalli corrono liberi
Perché mi son sentito un po’ tremebondo quando ho visto le foto
Di tutti i jockeys (i bonazzi, diremmo noi) che eran stati lì prima di me
Credici o no, ho cominciato a preoccuparmi
A chiedermi se avessi abbastanza classe
Ma era sabato notte, e questo rende il tutto a posto
E tu dici ’baby, hai abbastanza benzina?’
O yeah

Piccola Corvette rossa
Baby vai troppo veloce
Sì, sei una piccola Corvette rossa
Devi trovare un amore che possa durare
Oooh

Un corpo come il tuo dovrebbe essere in prigione
Perché è sull’orlo dell’oscenità
Ora fammi spazio, baby, e dammi le chiavi
Cercherò di domare la tua piccola macchina d’amore rossa…»

’Delirious’ è il terzo singolo top ten, anche qui il testo («Divento delirante quando mi sei vicina/perdo tutto il self-control, non riesco a sterzare/ Sei troppo da gestire/non riesco a fermarmi, i freni non funzionano più») va di pari passo con la musica, ritmo scandito con una battuta di battimani campionate e ritornello circolare di synth gioioso, mentre sotto il pezzo scorre senza sosta sul giro di basso sintetico, vocine multiple che entrano ed escono. Centropista inevitabile, potrebbe durare anche tutta la sera.

Il ritmo di ’Let’s Pretend We’re Married’ si scalda per qualche battuta, poi raddoppia ed entra la vocina maliziosa e seduttiva:
«Scusa ma ho bisogno di una bocca come la tua
Per aiutarmi a dimenticare la ragazza che è appena uscita dalla porta
Facciamo finta di essere sposati e facciamolo tutta la notte…»

In mezzo a dei coretti deliziosamente nonsense, «Ooh-eee-sha-sha-koo-koo-yeah, All the hippies sing together», la proposta si fa sempre più licenziosa fino a trascendere in un «I wanna I wanna I wanna fuck the taste out of your mouth”». Ma che gli devi dire?, è tutto così carino che la musichetta potrebbe essere una canzone per bambini. (Cresciuti, magari). 

Il finale è rappato: «Tutto quello che hai sentito di me è vero/cambio le regole e faccio come mi pare/sono innamorato di Dio, è l’unica maniera/io e te sappiamo che dobbiamo morire, un giorno/Dici che sono pazzo e probabilmente hai ragione/ma ho voglia di divertirmi ogni motherfuckin’ night.». Controverso, eh? Ma questa è l’essenza di Prince, 1982. Fine del disco 1, quello con tutti gli hit.

Sono tutti brani che certificano la voglia di esplorare nuove possibilità. C’è un uso ubiquo dei nuovi strumenti elettronici come il sintetizzatore Oberheim OB-SX e la batteria elettronica Linn-LM1 che sostituisce praticamente in toto la batteria tradizionale, ma consente anche di campionare e riprodurre suoni naturali, in quegli anni la usavano sia i gruppi new wave come Devo o Gary Numan che il suo rivale Michael Jackson, ognuno a modo suo. Quel beat digitale rimarrà una costante della produzione in studio degli anni 80 di Prince (dal vivo si alterneranno molti batteristi (qui Bobby Z, poi arriveranno Sheila E e Michael B). Fra l’altro, quel suono pur evolvendosi è rimasto molto moderno, dato che oggi con strumenti digitali son fatti molti dischi. Le uniche presenze vocali sono i cori femminili di Jill Jones e di Lisa, il resto delle parti vocali è tutto fatto da sé, che sia il tono seduttivo o i falsetti inumani e gli urletti che erano la sua specialità, o il tono più cattivo, rokkeggiante.

“1999” è un vinile doppio, in cui i pezzi sono spesso strecciati, come fossero jam di studio o improvvisazioni live, ma quasi mai ridondanti, eccessivi: il controllo di Prince è sempre esemplare, spesso nella carriera i brani li rivisita modificandoli, aggiornandoli, o usando pezzetti incisi anni prima infilandoli in brani nuovi, o ricostruendoli daccapo. In questo senso, se accendete un mutuo e comprate la riedizione super-deluxe quintupla di “1999” uscita qualche anno fa, in cui la leggendaria vault è stata aperta con generosità, si capisce meglio anche il metodo del workaholic al lavoro.

Sul disco 2, brani decisamente più strecciati e strumentali, fra riff di chitarra jamesbrowniani e schizzi di synth, troviamo pezzi che sanno di confessioni notturne, magari filtrate attraverso le temperature robotiche di synth come ’Automatic’, o brani di dance come ’D.M.S.R.’, sorta di quattro comandamenti del Principe: Dance, Music, Sex, Romance. Ci sono brani meno orecchiabili e più strani come la claustrofobica ’Something In The Water’ ispirata da ’Blade Runner’, c’è un’altra fantasia, quella della ’Lady, Cab Driver’, la tassista con cui la corsa ha -ma va?- un doppio senso immediato, e una ballata soul fra sospiri e urletti come ’International Lover’, compreso lui nella parte del pilota del “Boing Seduction 747” che annuncia che il volo si sta facendo interessante, allacciate le cinture. 

Ma il punto più alto, quasi acustico in mezzo a tutti quelle macchine, è una ballata col marchio Prince inciso sopra che sembra un prologo a ’Purple Rain’. Si chiama ’Free’, e in mezzo a tanti messaggi di sesso esagerati è un attimo di delicatezza, tocca le corde più intime, personali:
«Non dormire fino al levar del sole, ascolta la pioggia che cade
Non preoccuparti del domani, e neanche del tuo dolore
Non piangere a meno che tu non sia felice,
Non sorridere a meno che tu non sia triste
Non lasciare mai che quel mostro solitario si impossessi di te
Sii felice di essere libera
Libera di cambiare la tua mente
Libera di andare dove vuoi, quando vuoi
Ci sono molti che non lo sono
Sii felice di quello che avevi, baby, di quello che hai»

Per uno capace di saltare da un genere all’altro, è inevitabile anche il voler arrivare a un pubblico più ampio possibile, che è la mission di questo album. Continua Dickerson: «Anche se la maggior parte degli spettacoli erano in spazi grandi, o almeno grandi teatri, suonavamo per lo più di fronte a un pubblico afro-americano. Ma il piano di Prince era di diventare questa band rock multirazziale e multiculturale, senza essere messi in una categoria. Uno degli analitics con cui misuravamo il nostro successo nel raggiungere questo obiettivo era il mix razziale del pubblico. Ci scherziamo sopra, adesso, ma qualcuno del management entrava in camerino e diceva ’stasera in platea è 30/70, o 60/40, o 50/50’. Poi è arrivato il punto in cui il rapporto si è invertito e il pubblico è diventato principalmente bianco.  È surreale a pensarci adesso, ma la ’conta della etnicità del pubblico’ era diventata una cosa quotidiana. Però noi volevamo tutti essere una band popolare. Non volevamo essere un gruppo nero popolare, o un gruppo bi-razziale o multirazziale: volevamo essere il gruppo più grande del mondo, con tutto ciò che ne consegue». 

Il momento storico in cui esce “1999” non rende l’obiettivo facile. La radio è ancora segregata, stazioni nere e da una parte e la FM per il pubblico rock bianco dall’altra: si è appena usciti dalla lotta di quest’ultime contro la Disco, e anche se c’erano stati momenti in cui i due generi si erano contaminati (Rod Stewart e Donna Summer, ognuno che partiva dallo spettro opposto per ricongiungersi in the mix), i due mondi erano ancora lontani. Questo è l’album che fa cadere le barriere e unisce le due sponde: sul ponte invisibile il funk e il soul si mischiano con la new wave e il rock, e l’album è a modo suo storico, oltrechè un trionfo di vendite e riconoscimenti.

Non ultimo, poi, c’è il ruolo di MTV, nata l’anno prima. Prince apparentemente è perfetto per il formato visuale: non solo musicalmente giusto, ma anche un ballerino talentuoso che si veste in maniera stravagante e ha una padronanza scenica totale. Solo che il network si rivolge essenzialmente al pubblico bianco e trasmette solo musica di artisti bianchi. Finchè il Presidente della CBS Walter Yetnikoff non recapita il messaggio chiaro e forte ’o trasmettete “Thriller” di Michael Jackson o ritiriamo tutti i nostri video’, e la rottura di questo dogma (ridicolo per noi ma ben radicato storicamente nella cultura americana) aiuta Jackson ma anche Prince. Anzi, crea una rivalità che farà epoca e spingerà di molto avanti la black music per tutto il decennio e oltre: Michael e il suo produttore Quincy Jones da una parte, Prince tutto-da-solo dall’altra, inutile chiedermi da che parte stessi. 

“1999”, come “Revolver” per i Beatles e “Fear of Music” per gli Heads è il capolavoro minore che annuncia quello definitivo, che arriverà un anno dopo con “Purple Rain”. È il primo album che fa di Prince una star riconosciuta, popolare, influente. La sua maestrìa nel comporre e nel suonare, la sua regia di tutto il pacchetto completo – da disco a clip a (trionfali) spettacoli dal vivo – segna l’arrivo dell’Artista che plasmerà la musica degli anni 80 e oltre. Quei suoni influenzeranno tutta la black music – r’n’b, new wave, new soul, funk, electro, house, techno – che seguirà. Questo è solo il primo di una serie di Lp straordinari. Il piccolo genio, ora si sa, è al lavoro e i risultati saranno ogni volta innovativi, sorprendenti, divertenti, incomparabili. Perché nulla si può, e si potrà, paragonare a Prince. 

 

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