Se non avete ancora ascoltato “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.
Brand che vestono cantanti, contribuendo in gran parte a creare una mitologia; maison che creano guardaroba per bio-pic dedicati a rocker leggendari; musicisti blasonati che sono testimonial delle campagne pubblicitarie. La connessione tra rock – inteso come genere musicale nelle sue infinite varianti – e moda, sembra essersi assai rinsaldata negli ultimi anni, complice anche la quantità di rockumentary che negli ultimi dieci anni sono stati prodotti.
Un elenco lunghissimo che va da Amy Winehouse ai Rolling Stones e Bob Dylan ( in questo caso entrambi i documentari sono stati girati da una leggenda parigrado, Martin Scorsese, autore di Shine a Light del 2008 e di Rolling Thunder Revue del 2019). Vuol dire forse che il rock tornerà nelle classifiche dei brani più ascoltati dell’anno di grazia 2022? Come direbbero gli inglesi “not so fast”.
Austin Butler è di Prada vestito, mentre rotea il peccaminoso bacino, interpretando la prima rockstar di cui la storia recente ha memoria: Elvis. Il guardaroba dell’ultimo bio-pic di Baz Lurhmann, a metà tra fan fiction ed esegesi dell’artista nativo di Memphis, è infatti firmato dalla designer più riflessiva e concettuale possibile, che il rock non lo ama tanto – si dica preferisca la musica classica, e che ogni tanto quando è particolarmente in serata, durante le cene intime per i pochi eletti all’interno dell’appartamento storico di Porta Romana, si esibisca anche in alcuni riusciti gorgheggi – ma di certo l’amicizia con il cineasta ha avuto la sua parte, nello spingerla a creare l’armadio di Elvis The Pelvis.
Hedi Slimane ha scelto invece l’ultima rockstar prodotta dal finale degli Anni 90, quel Jack White di cui inconsapevolmente intoniamo Seven Nation Army come mantra apotropaico e nostalgico della nostra ultima vittoria ai mondiali, e lo ha fotografato nell’ultima campagna di Celine. Un gesto coerente con la poetica di un creativo da sempre ossessionato da uno specifico momento nella storia, e nella geografia: una dimensione spazio-temporale equamente distante tra i primi 2000 allo Chateau Marmont, tra i fantasmi di un Johnny Depp prima che le dipendenze reclamassero in maniera conclamata il loro debito sul corpo e sul volto dell’attore, e l’Hackney londinese del 2005, dove Amy Winehouse si aggira ancora in stato confusionale, con le ballerine sporche e le bretelle del reggiseno fluo che spuntano fuori dal corsetto, all’uscita di un pub qualunque.
Sul piccolo schermo, invece, è stato assai apprezzato dalla critica Tommy & Pam, racconto del primo sex tape nell’era del VHS e di un mondo allora sconosciuto, quell’Internet di cui Pamela Anderson ha pagato le estreme conseguenze. Tommy Lee gigioneggia in tutto il suo maschilismo interiorizzato, pantaloni di pelle, tatuaggi variegati e slip bianchi, metrosexual ante litteram, di certo prima di David Beckham.
Nel frattempo i Maneskin raccolgono allori e dischi di platino in egual misura, continuando a portare in scena la versione 3.0 del glam rock, con outfit powered by Gucci che li vogliono inscrivere nella mitologia del genere, insieme a Marc Bolan e ai New York Dolls, cross-dresser punk che indossavano paramenti e belletti femminili assai prima che la moda potesse complimentarsi per la loro fluidità e il rigetto delle norme di genere così antiquatamente etero-normative.
Il rock è quindi, tornato di moda?
Ne discettano riviste specializzate raccontando gioie (pochi) e dolori (tutti eviscerati di fronte all’occhio della stampa) di un genere musicale che in passato ha influenzato la moda, costringendola a stare al passo con un’umanità eccessiva e poliforme alla quale non bastavano le opzioni allora contemplate nell’armadio (Bowie su tutti, assai prima che il concetto di vestirsi un po’ a seconda delle personalità e del periodo artistico, diventasse mainstream e perfettamente inglobato all’interno del percorso di consapevolezza collettiva della Gen Z).
Forme similari – e in alcuni casi, conclamati tributi – di quei guardaroba sono oggi adottati dalle nuove icone musicali, molto più pop idol che rocker, ma l’idolatria acritica nei loro confronti permane. Basti pensare al vestito con gonna ieratica indossato da Bad Bunny ai Grammy 2021 – disegnato da Riccardo Tisci per Burberry – che era la versione riflessiva e in odore di culto laico del “man dress” pensato da Michael Fish per Mick Jagger durante lo storico concerto ad Hyde Park del 1969.
L’inglese immarcescibile – che, a 79 anni appena uscito dal covid, si è esibito qualche settimana fa al San Siro di Milano in concerto con i Rolling Stones – è chiaramente ossessione vestimentaria di Harry Styles, che, insieme ad Alessandro Michele di Gucci, ha più volte omaggiato gli outfit del leader della rock band più famosa di tutti i tempi.
L’esibizione di Kid Cudi al Saturday Night Live di Aprile 2021 ha fatto parlare più per il suo vestito – epigone del vestito floreale che Kurt Cobain aveva indossato per un suo concerto nel 1990, in un college del Massacchussets – che per il valore artistico della sua performance (ha suonato “Tequila Shots”, estratto dal suo settimo album Man on the Moon III: The Choosen, ma questo dettaglio è apparso irrilevante agli occhi della stampa).
In questo caso l’outfit era stato pensato per essere assai più instagrammabile dell’originale, che appariva la scelta perfetta per una giornata casalinga nella periferia disgraziata di Providence, in un parcheggio per camper ai bordi della città e della società: a disegnare il vestito a fiori di Kid Cudi è stato infatti lo scomparso Virgil Abloh, profeta della moda originale solo al 3% (la percentuale bastevole di modifiche che secondo il creativo americano, poteva rendere “cool again” qualunque oggetto o paramento vestimentario già esistito).
Lil Nas X, eccezionale nel suo essere nuova voce del country, e al contempo essere nero e apertamente gay – caratteristiche poco digerite dal pubblico del genere, assai conservatore – si esprime gioiosamente anche e soprattutto attraverso outfit che fanno il verso a quelli indossati negli Anni 80 e 90 da Prince, completi viola su tutti. Il placet in questo caso è stato concesso direttamente da Donatella Versace, che ha realizzato diversi completi per le uscite di Lil Nas X, e che, in passato, ha collaborato a stretto contatto con Prince, in un rapporto umano e professionale di mutuale beneficio: lei pensava alcuni dei suoi completi, lui realizzava le colonne sonore delle sfilate di Versace.
Rock e moda: un flirt pericoloso?
Il rock e le sue icone, insomma, piacciono assai alla moda: un flirt pericoloso, almeno secondo Giulio Casagrande, celebrity stylist che cura il guardaroba di diversi volti noti della musica italiana. «A livello di sfilate e collezioni, certo Hedi Slimane da Celine è stato da sempre ossessionato da quella idea di rock, che però è più relativa alle fisicità del casting: ragazzi e ragazze tendenzialmente assai esili, come fossero consumati dallo spirito del rock. Questo non vuol dire che, a livello generale, non esista una certa fascinazione verso quell’epoca, anche se a ben guardare, il rocker duro e puro, à la Tommy Lee, indossava pantaloni di pelle, e poco altro. Il glam con il suo impatto estetico ha di certo più presa sulle pop star, anche se, quando si tratta di costruire il loro look, va sapientemente dosato, soprattutto quando si lavora con artisti giovani e ancora relativamente poco conosciuti: il rischio è che il look divenga di primaria importanza, e che a perderne sia la personalità musicale dell’artista».
Un monito che appare in tutta la sua lucida chiarezza, se si pensa all’esegesi di Lucio Corsi, artista poco noto ai più, classe 1993, natali a Vetulonia, frazione di Castiglione della Pescaia con 254 abitanti stimati nel 2011. Portatore di istanze musicali assai distanti da quelle dei suoi coetanei, e però ben recensite dalla critica di settore – OndaRock parla del suo terzo album, Cosa faremo da grandi?, pubblicato nel 2020, come “Un compendio di sonorità orchestrali e riff degni del Bowie più glam” – il cantautore prende a modello artisti di culto come Ivan Graziani, conservando tracce di un certo lirismo che devono di più a Dalla, DeGregori, e persino Bersani.
Una eccezione nel panorama italico contemporaneo, già scoperta da Gucci, che, complice il suo viso da cherubino ribelle assai adatta all’estetica del brand, lo ha reclutato come testimonial per la Cruise 2018. Inoltre, nei video e nelle immagini ufficiali, il giovane artista indossa spesso completi del brand, che però il grande pubblico ha già visto – e spesso rivisto – indosso a giganti della popolarità italica come Achille Lauro. Sorvolare sulla sua produzione artistica complessa, fermandosi superficialmente al completo doppiopetto in velluto verde pino, è un rischio reale. Ma oltre all’approccio estroso al guardaroba, complice anche la cinematografia dedicata, il rock è destinato a tornare nelle classifiche?
«Farei una distinzione tra le scelte estetiche degli stylist, e poi, la possibilità che il genere torni a farsi vedere anche nelle rotazioni delle radio, o in cima alle liste degli album più venduti» specifica Lele Sacchi, producer, voce radiofonica di Rai Radio 1 e dj. «Questo ritorno dell’immaginario del rock, favorito anche da tutta una serie di rockumentary girati negli ultimi quindici anni, non corrisponde alla penetrazione del genere, soprattutto non in Italia.
In America, paese nel quale Dna il genere è totalmente iscritto, ci sono ad oggi band che ne riprendono anche le istanze musicali, come i Greta Van Fleet, che sembrano una versione al karaoke dei Led Zeppelin. Da noi, a parte i Maneskin, che rappresentano un pacchetto completo, dove l’estetica da glam inglese si unisce alla musicalità rock classica, non ci sono esempi del genere, anche perché storicamente in Italia il rock ha avuto l’apice della sua fama negli Anni 70, con il progressive e band come la Premiata Forneria Marconi: una storia però che era legata a filo doppio al vissuto politico del nostro paese e agli anni delle contestazioni giovanili.
Il rock, ad oggi, non è il suono di scelta dei giovani, non li vedo correre nei negozi a comprare le chitarre elettriche, anche perché ad oggi le chitarre si possono suonare anche in digitale. Certo, le scelte dei direttori creativi delle maison, che pescano da questo o quel personaggio del passato, possono portare le nuove generazioni ad interessarsene, anche perché è tutto a portata di clic, ma si tratta di interessi che si limitano ai suoi codici visivi. Il rock è polveroso, di nicchia: non morirà mai, ma farlo tornare di moda è assai improbabile».
E in effetti, forse, la grande produzione cinematografica del settore (da Montage of Heck, dedicato a Kurt Cobain nel 2015, passando ad Amy, che ha immortalato la Winehouse nello stesso anno, per arrivare a Little Girl Blues, documentario incentrato sulla super nova Janis Joplin, sempre nel 2015) ha contribuito ad aumentare l’effetto nostalgia, verso epoche passate e per questo, agli occhi disillusi della Gen Z – che si trovano a combattere con le problematiche di un mondo ricevuto in eredità discretamente malato – sicuramente migliori.
La realtà è che la declinazione del rock che si percepisce ora, tra le liste dei best (o worst, a seconda dei casi) dressed nelle riviste di settore, è volutamente monca di tutto il problematico bagaglio culturale del genere. Il maschilismo tossico esibito nei testi delle canzoni e nelle relazioni interpersonali, gli eccessi, con le dipendenze di ogni genere, all’epoca sfoggiati con una certa nonchalance, oggi appaiono assai meno affascinanti, basti pensare alla stizza con la quale il frontman dei Maneskin ha risposto alle accuse – prive di qualunque fondamento – di una certa stampa francese, di aver sniffato cocaina sui tavolini dell’Eurovision lo scorso anno.
Non ci si immagina, neanche facendo molti sforzi di immaginazione, David Bowie difendersi con la stessa foga dall’accusa di aver superato i confini prescritti dalla morale comune, non solo nel suo armadio, ma anche nella gestione delle sue narici. Più che un revival del genere, è il cosplay di una polaroid assai affascinante, ma non più adatta alla coscienza sociale odierna, una versione annacquata di una hit del passato, risciacquata al punto di essere uno sbiadito ricordo. E non è una sorpresa se, infatti, tra le canzoni presenti nella colonna sonora di Stranger Things, ad essere tornata al primo posto nelle classifiche sia stata Running Up that hill, di Kate Bush, miracolosa e orecchiabilissima iniezione pop nella new wave del decennio, e non di certo, Master of Puppets dei Metallica.
Eddie Munson, il personaggio più amato dell’ultima stagione – outcast per antonomasia, nonostante i suoi coetanei coabitino con lui nel suo stesso spazio temporale, il 1985, senza sapere chi siano gli Iron Maiden – la suona in uno snodo fondamentale della serie, corredato di chitarra elettrica e amplificatori. Un gesto eroico che cambierà le sorti della narrazione, senza dargli la salvezza. E però, un’uscita di scena più epica, in fondo, non sarebbe stata possibile.