Il cambiamento climatico è l’argomento più polarizzante per gli elettori statunitensi, secondo i sondaggi. Sull’Inflation reduction act, il pacchetto di misure e investimenti da 369 miliardi di dollari, si erano quasi perse le speranze. Quando è passato quasi a sorpresa al Senato, gli attivisti e la base giovane dei democratici hanno temuto un compromesso al ribasso con il solito Joe Manchin della West Virginia. Per una prima stima della sua rilevanza, però, basta la riottosità con cui i repubblicani hanno cercato di sabotarlo. Con tutti i suoi limiti, questo disegno di legge segna comunque un passo storico, anche per il mandato che restituisce all’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente (Epa) contro le sentenze oscurantiste della Corte Suprema di emanazione trumpiana.
Era il 1987 quando Joe Biden, all’epoca senatore, proponeva un Global Climate Protection Act, poi naufragato alla Camera alta, per vincolare il governo a contrastare il surriscaldamento terrestre. Trentacinque anni dopo, può rivendicare d’essere il più incisivo presidente sul clima da quando il tema è diventato mainstream. Lo ha ricordato recentemente Future Tense. Su una cosa gli esperti concordano: senza questo provvedimento, gli Stati Uniti avrebbero fallito l’impegno di ridurre le emissioni del 40% – rispetto ai livelli del 2005 – entro il 2030. Non significa che ora lo centreranno automaticamente, ma sono sulla buona strada per riuscirci.
Le trattative parlamentari hanno ridimensionato gli obiettivi del piano Build back better delle origini, è vero. Ma le concessioni, all’interno di un testo intitolato al contrasto dell’inflazione, hanno riguardato soprattutto la parte economica, mentre l’impianto climatico dell’Inflation reduction act è rimasto più o meno salvaguardato. Va poi inquadrato all’interno della produzione legislativa complessiva dell’amministrazione Biden-Harris: è il terzo atto con ricadute positive, da sommare ai 300 miliardi dell’Infrastructure law bill, sostenuto in modo bipartisan, e al Chips act sui semiconduttori, una tecnologia fondamentale per le energie rinnovabili. Di fatto, triplicano gli stanziamenti per ambiente e transizione ecologica: 80 miliardi di dollari l’anno.
Riassumere in poche righe i punti del pacchetto è un’inevitabile semplificazione, ma ecco alcuni dei principali. Ci saranno forti incentivi fiscali, cioè sconti dalle tasse, per pannelli solari, pale eoliche, geotermico e, in generale, tutta l’energia pulita. Questi crediti, prima, scadevano ogni uno o due anni, quindi imprese e cittadini vivevano nell’incertezza che venissero rinnovati. Ora dureranno dieci anni e i media prevedono un’impennata nella produzione, anche se resta il problema – inizialmente affrontato ma poi scorporato – di come trasportare l’elettricità così generata per lunghe distanze e fino alle zone rurali.
In più, scatteranno incentivi per tenere aperte le centrali atomiche. Per quanto riguarda l’automotive, saranno detraibili dalle imposte 7.500 dollari nel caso di acquisto di un veicolo elettrico o 4mila se è usato. Sono previsti 27 miliardi di dollari per dare sostegno finanziario a progetti nelle energie rinnovabili, altri 20 per rendere meno impattante l’agricoltura, e 60 miliardi per ridurre il divario tra le comunità ad alto reddito e le minoranze, che subiscono di più le conseguenze dell’inquinamento. Infine, verrà istituita una multa di 1.500 dollari alla tonnellata contro le fughe di metano da gasdotti e infrastrutture: i 6,3 miliardi di introiti previsti verranno reinvestiti per riparare la rete.
Su una linea simile a quella di Fox News, che rinfaccia ai dirigenti dem di non saper quantificare in gradi centigradi risparmiati l’efficacia del piano, c’è l’ex condirettore dello Institute for carbon removal law & policy della American University. Ha rilevato come la normativa non abbia il potenziale per rendere accessibile, per i prezzi ancora troppo elevati e inaccessibili al mercato, la riduzione del carbonio. Questa tecnologia sarà uno dei game changer nella sfida epocale che ci attende, ma vengono comunque introdotti sconti fiscali significativi per chi la adotta.
Insomma, ci sono i presupposti per salvare i non pochi aspetti positivi del pacchetto. Tanto più visto che arriva dopo gli anni di negazionismo di Donald Trump. C’è poi uno strumento legislativo esiziale, come ha spiegato il New York Times. Quest’anno la Corte Suprema aveva ridimensionato i poteri dell’Epa, sostenendo che il Congresso non l’avesse mai autorizzata formalmente a mettere in discussione il mix energetico degli Stati Uniti. Ora il dispositivo ha emendato il precedente Clean air act del 1970 sulla qualità dell’aria, classificando una volta per tutte i combustibili fossili come sostanze inquinanti. È stata sanata, così, un’anomalia storica che aveva ancora effetti deleteri.
I democratici avrebbero costruito questa “manovra climatica” proprio per consolidare il mandato dell’agenzia federale, mettendo nero su bianco la sua autorità di regolare le emissioni (o, meglio, di combattere ciò che «mette in pericolo la salute umana», ma tant’è) e favorire la penetrazione delle energie rinnovabili. Non a caso, è su questo punto, e in particolare sulla terminologia, che si è concentrato (invano) il fuoco di sbarramento dei repubblicani. Alla fine, come in altre occasioni, è stato decisivo il voto della vicepresidente Kamala Harris, per un pallottoliere da 51 a 50.
Settimane prima di questo passo storico, il senatore Manchin della West Virginia – disallineato di facciata, però il suo ostruzionismo ha fatto spesso il gioco del Gop – aveva ventilato che non avrebbe sostenuto il provvedimento. Ufficialmente perché preoccupato per l’inflazione, in pratica perché in conflitto di interessi: il suo Stato è ricco di gas e di carbone, quel mondo industriale gli paga le campagne elettorali e lui stesso è coinvolto nel progetto di un gasdotto per pompare metano tra la West Virginia e la Virginia. Come contropartita, Manchin ha ottenuto da Biden un salvacondotto per nuove infrastrutture energetiche. Un’altra concessione sono i permessi per nuove trivellazioni nel Golfo del Messico e in Alaska.
Il cambiamento climatico è, al tempo stesso, una priorità per gli elettori democratici (per il 65% di loro) e una delle urgenze meno avvertite dai repubblicani (solo l’11%). I dati, dai sondaggi del Pew Research Center, sono stati aggregati in un’analisi di FiveThirtyEight. Il corpo del partito progressista è scettico o disilluso sul tema: lo testimonia lo scarso entusiasmo nell’ospitare il tour di Biden, il cui indice di gradimento è sceso sotto al 40%, che dovrebbe servire a compattare le truppe e tirare la volata verso il voto del Midterm di questo autunno. Il tema viene vissuto, anche da strateghi e spin doctors, come intrinsecamente connesso alla democrazia.
Sembra come se una parte dei dem fosse più impegnata a impedire all’anziano presidente di ricandidarsi nel 2024, ammesso lui ne abbia davvero l’intenzione, che a battere un elefante ormai ostaggio di un’agenda alt-right. Eppure, tra scetticismo e disillusione, persino l’ala radicale di Alexandria Ocasio-Cortez ha accolto il Green new deal come ormai raggiunto e il 79% dei democratici approva le politiche climatiche dell’amministrazione Biden.
In un Paese dove, come ha rivelato un’inchiesta del Guardian, i moloch di impresa e trust funds si imbellettano di slogan ecologisti ma in privato fanno un lobbying forsennato nella direzione contraria, cioè il greenwashing della peggior specie, forse sarebbe il caso di riconoscere il valore dei più grandi investimenti ambientali nella storia americana. È comunque una svolta. Un inizio, non esattamente in sordina. È, soprattutto, la fine dell’immobilismo.