Yankee Go HomeL’antiamericanismo ha i capelli bianchi ma è ancora vivo e lotta contro di noi

La guerra di Putin all’Ucraina ha fatto riaffiorare dal retrobottega di alcuni settori progressisti della società italiana l’odio per gli Stati Uniti, stavolta mascherato da “pacifismo”

© Giulio Napolitano / LaPresse

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A quanti italiani piacerebbe urlare «yankee go home». Purtroppo per loro, non possono farlo perché gli Stati Uniti non stanno invadendo nessuno. Anzi, aiutano chi è stato invaso. Ma per gli antiamericani, magari con qualche capello bianco, è sempre colpa dello Zio Sam. La guerra della Russia di Vladimir Putin all’Ucraina ha resuscitato un sentimento che non si riteneva più così largo: l’ostilità, ai confini dell’odio, verso gli americani, anche da parte di settori progressisti della società italiana improvvisamente auto-frullatisi in una macchina del tempo che li ha riportati indietro di decenni.

È come se tutto il grumo anticapitalista e antimperialista del secolo scorso fosse riaffiorato dal retrobottega della cultura italiana sotto le insegne di un “pacifismo” spesso ipocritamente contrario all’uso delle armi in favore del Paese occupato: un Vietnam al contrario. Perché, se all’epoca la sinistra inneggiava alle armi fornite dall’Unione sovietica al “piccolo popolo dei contadini” oggi l’accusa all’America di Joe Biden è di sfruttare la guerra di Putin per rafforzare il proprio dominio sull’Europa e per finanziare l’industria delle armi: si riesuma lo spauracchio dell’egemonia americana che avrebbe ridotto l’Italia all’obbediente servilismo in chiave anti-sinistra. « Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello! »: siamo sempre lì, a Dante, per gli italiani che si sentono schiavi di Washington. Con la differenza che il Poeta aveva ragione.

Si sa che la sinistra italiana, cresciuta in quello strano e riuscito mix tra senso patrio e filosovietismo inventato da Palmiro Togliatti, non si è mai sentita amica degli Stati Uniti, nemmeno dopo il 25 aprile del 1945: gli stessi partigiani soffrivano il dualismo con gli angloamericani, salvo scrutare i cieli in attesa dei rifornimenti scaricati dagli aerei di Franklin Delano Roosevelt. E, soprattutto, la narrazione della Resistenza è stata sempre – comprensibilmente, peraltro, perché faceva parte del mito del “riscatto nazionale” – un fatto tutto italiano, mentre la Normandia e gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio sono sempre rimasti sullo sfondo, o quasi. I romani per esempio non hanno mai dimenticato la ferita del bombardamento americano del quartiere popolare di San Lorenzo: anche per questo la sinistra della Capitale non ha mai amato l’America.

Togliatti, tornato in Italia, ignorava chi fosse Gary Cooper. D’altra parte, il Pci era un “partito fratello” del Pcus, il partito comunista sovietico, e, almeno fino agli anni Ottanta, una parte rilevante del suo cuore ha battuto lì, mentre più tardi l’antiamericanismo si è nutrito dell’ostilità nei confronti di Ronald Reagan, dei Bush e infine di Donald Trump (Barack Obama essendo risultato, alla fine, una mera parentesi).

Nell’animus della sinistra italiana, l’America è quella che nel 1947 si intromette e fa in modo di cacciare le sinistre dal governo e che, con la breve parentesi del kennedysmo, ha sempre svolto per la sinistra un ruolo regressivo e antidemocratico. E non che non vi siano solidi argomenti e episodi sconcertanti a favore di tutte queste tesi. Ma oggi si vede quanto siano stati insufficienti, e in fondo tattici, i tentativi di Enrico Berlinguer di espellere l’antiamericanismo dalla mentalità, anche a livello di massa, di una parte rilevante della sinistra italiana. Laddove non mancano mai, poi, gli antiamericani di professione, di tarda derivazione sessantottina, una parte dei quali – basti vedere certi talk show – hanno aperte simpatie putiniste, in odio all’Occidente e al capitalismo. Yankee go home», appunto. E la questione inquietante di oggi non è criticare gli americani, ma considerarli il Nemico (mentre dall’altra parte c’è una dittatura che massacra un popolo sovrano!).

Soltanto la chiara posizione filoatlantica del Pd di Enrico Letta e la fermezza di Mario Draghi hanno potuto arginare un possibile dilagare di un sentimento popolare ostile all’Occidente, incoraggiato peraltro da diversi leader politici, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte fino a Silvio Berlusconi. E certo non è un caso che si tratti, specie per quello che riguarda i primi due, dei leader dell’antipolitica e del populismo più superficiale – una volta si sarebbe detto “qualunquista” – che soffia sul quadro politico italiano.

Viene da chiedersi se qualche chilo di antiamericanismo non sgorghi proprio da un insito disprezzo verso la politica e le istituzioni, da un antagonismo di massa nei confronti dell’establishment (o della ricchezza) e dallo scetticismo dell’italiano medio verso quel diritto alla felicità sancito dalla Costituzione americana. Insomma, è plausibile ritenere che il populismo, con il suo carico di vittimismo, passività e invidia sociale, rechi nella sua pancia una robusta dose di antiamericanismo. Ma neppure il mondo cattolico ha mai amato gli Stati Uniti, per profonde ragioni dottrinali, morali e culturali. Al suo interno convivono, in una sorta di dualismo, l’atlantismo di Alcide De Gasperi e l’europeismo antiamericano di Giuseppe Dossetti. Dal punto di vista strettamente politico, a prevalere è stata la linea del primo, incarnata da Aldo Moro e Beniamino Andreatta (non a caso il maestro di Letta). E, tuttavia, un solido scetticismo ostile persino alla grande cultura americana – dal cinema alla musica – ha sempre albergato in quei cattolici che a quella cultura preferiscono l’Europa del dubbio e dell’incertezza esistenziale, della colpa e del sacrificio, dentro una visione antiedonistica e antindividualista.

Il punto è proprio questo: la sinistra e i cattolici, se è consentita questa schematizzazione, tendono a privilegiare l’uguaglianza più che la libertà. Scelgono, cioè, la centralità dello Stato e la solidarietà (i cattolici) e il conflitto di classe (la sinistra) rispetto al primato del cittadino e alla società aperta. Per tutti loro l’America, con i suoi sogni e, certamente, con le sue clamorose ingiustizie, non è, come indicava Alexis de Tocqueville, il futuro del mondo, ma è semmai un “legno storto” che non piacerà mai. Quanto alla destra, la posizione atlantista di Giorgia Meloni è soprattutto dovuta a una scelta tattica e superficiale, peraltro in totale contrasto con la sua empatia per un superputiniano come Viktor Orbán. E non si deve dimenticare l’innamoramento di Giorgia per The Donald, residuale scoria dell’eterna ammirazione della destra per l’uomo forte, con il corrispondente odio per l’America democratica che contribuì in modo decisivo a distruggere il fascismo italiano.

Ecco dunque che nel momento in cui Biden ha dato la sensazione di voler assumere la leadership della comunità democratica mondiale molti hanno visto in questo l’attacco finale al multilateralismo e la ripresa della tentazione egemonica e dominante degli Stati Uniti. È come se la grande frattura che ha opposto per secoli l’America liberale all’Europa cattolica – momentaneamente ricomposta con la Seconda guerra mondiale e riallargatasi poi nei decenni successivi e di nuovo apparentemente sanata con il crollo del Muro di Berlino – fosse adesso nuovamente esplosa, pur nel paradosso della denuncia comune dell’imperialismo russo.

Tutto questo ribollire non distingue tra Joe Biden e Donald Trump: si tratta in ogni caso di fermare il dominio americano sul mondo, anche se questo dovesse passare per la capitolazione del popolo ucraino – d’altronde, in Italia c’è da tempo chi auspica la resa di Volodymyr Zelensky – e persino per una cessione di ulteriore potere d’influenza alla cricca di Putin. È insomma un vagheggiamento, non si sa quanto consapevole, di un ritorno alla Guerra fredda e ai blocchi contrapposti: addirittura, qualche tardo-dossettiano evoca questo scenario come indispensabile per far emergere un ruolo nuovo dell’Europa.

Così, a restare filoamericani sono i settori della politica meno impastoiati con i residui ideologici del passato, cioè alcuni dirigenti del Pd, laici e i riformisti di vario conio: a occhio, una minoranza.

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