Carbs neutralityCronaca epica di quella volta che ho fatto la pasta e ho lasciato il gas acceso

Lo so di aver sprecato energia (non diciamolo al Nobel Giorgio Parisi), ma ho compensato con tre mesi di scaldabagno spento (diciamolo a Mario Draghi) e non riesco a sintetizzare l’enzima che produce il senso di colpa

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Non me ne frega niente delle buone cause. Non per anticonformismo: per mancanza di disciplina. Non riesco ad applicarmici. Alla gente nelle interviste chiedono un difetto, e quella risponde: sono troppo generosa. Oppure accennano a un difetto minorissimo, perdo i calzini in lavatrice, e poi corrono ad aggiungere: però sono un’ottima amica, leale e altruista. M’intervistassero, io risponderei come Vittorio Gassman: m’accorgo innanzitutto di me, non posso farci nulla.

È sempre stato così: non mi faceva effetto «mangia la verdura, pensa ai bambini in Biafra» (anzi, non dico che fossi contenta del loro morire di fame, però insomma, siamo serie: se non fossero stati poveri, noi non avremmo avuto il Live Aid); non m’impressiono se un influencer dona in beneficenza quel che io guadagno in due anni e lui in quindici secondi di storia Instagram sponsorizzata; e cito continuamente quell’intervista in cui Jack Nicholson diceva che lui non faceva beneficenza: pago le tasse, che se ne occupi il governo.

Quindi, quando quest’estate Mario Draghi – che non ha le caldane da menopausa – ha detto volete la pace o l’aria condizionata, io non ho detto niente ma ho continuato a tenere il termostato a 18 gradi. Ho un’amica con la quale, col friccico che dovevano avere i terroristi nel raccontare ai loro cari «sai, oggi ho sequestrato a mano armata un tizio», ci siamo confessate che, nelle notti meno calde, il nostro massimo godimento era tenere comunque l’aria condizionata freddissima e dormire sotto la trapunta.

Se sono virtuosa, lo sono accidentalmente. Ho cambiato casa ad agosto dell’anno scorso, e a novembre ho telefonato all’amministratore: non funziona lo scaldabagno, insomma, è uno scandalo. Il tempo di mandarmi un tecnico che mi ha guardato come una deficiente, ed è venuto fuori che lo scaldabagno non era mai stato acceso, perché nessuno m’aveva detto che c’era un apposito pulsante, e io non me n’ero accorta giacché l’acqua al naturale era stata da agosto a ottobre abbastanza tiepida perché mi facessi la doccia senza consumare gas.

Se sono poco solidale, lo sono altrettanto accidentalmente. Qualche mese fa mi sono fatta un piatto di pasta. L’evento è rimasto nella memoria mia e di tutti quelli cui l’ho raccontato perché io non cucino mai ma proprio mai, fosse per me chiuderebbero Masterchef e tutti i suoi derivati (se Locatelli resta disoccupato, potete mandarmelo a casa a spignattare).

Quel giorno decido che basta ordinare, basta consegne a domicilio, basta ristoranti che fanno le veci della me massaia, cos’ho meno di Natalia Ginzburg, cos’ho meno di Clara Sereni, sono intellettuale esemplare ma anche casalinga sopraffina, gli spaghetti coi datterini le uova al tegamino le posate non di plastica le audaci imprese io compio.

Scolo gli spaghetti, li ripasso nel sugo, li vado a mangiare in qualche altra stanza. Dieci ore più tardi, la sera, mi riaffaccio in cucina per prendermi da bere, e una luce brilla sul fondo di quella inutile stanza buia. Avevo lasciato il gas acceso. Per fortuna togliendo il tegame, che sennò sarebbe diventato un’installazione fusa coi fornelli. Ma, sensodicolpizzata dal draghismo e dal solidarismo, ho pensato: chissà quanti bambini ucraini ho ucciso con questo spreco.

Mi è durata quattro secondi: ho una malattia ancora da scoprire che m’impedisce di sintetizzare l’enzima che produce il senso di colpa, e ho subito pensato che comunque avevo compensato con tre mesi di scaldabagno spento.

Poi è successo che non le dieci ore accidentali ma i venti minuti regolamentari di fornello acceso hanno smesso d’essere un’ordinarietà e sono diventati un’emergenza. Giorgio Parisi, che diversamente da me che non sono riuscita a passare neanche l’esame per la patente è un premio Nobel, aveva spiegato che se spegni il gas e lasci la pasta nella pentola d’acqua calda quella si cuoce lo stesso, e sull’internet era partita la gara a chi era più virtuoso, più solidale, più capace di mettere in pratica da grande quel che aveva letto nel Manuale delle Giovani Marmotte da piccolo.

Ci facciamo sempre riconoscere, e quindi la corrispondente da Roma del Financial Times, Amy Kazmin, mercoledì si è occupata di questo nuovo delirio nazionale: anni a irridere gli americani che non capivano che l’acqua andava fatta bollire prima di buttare la pasta, e ora mandiamo a puttane la liturgia cui tanto tenevamo. L’articolo, giacché i giornali anglofoni mai e poi mai cedono ai cliché, era illustrato da un fotogramma di, che il dio delle prevedibilità abbia pietà di noi, La ciociara.

Kazmin riferisce di aver provato la bollitura passiva e che i rigatoni ne sono usciti così schifosi che li ha buttati; poi di aver provato gli spaghettoni quadrati (che neanche sapevo esistessero: vengono da fuori e non solo ci arrubbano i posti di lavoro ma ci superano pure in tema di carboidrati) in due pentole parallele, una col fuoco acceso e una col fuoco spento dopo i primi due minuti: dice che erano buonissimi entrambi. Bene, ma non fanno tre cotture per un solo piatto di pasta? Tutto questo economizzare non fa sprecare più gas di quando cucinavamo come persone normali?

Non so, ma mi pare chiaro che senso del ridicolo l’è morto, e la morìa riguarda anche gli stranieri in visita. La signora Kazmin dice che, poiché ogni piatto di pasta cotto su gas finanzia la guerra russa, lei ha vissuto «ogni insalata mangiata quest’estate come un atto di solidarietà con gli ucraini». Forse, se nell’85 avessi detto che volevo guardare David Bowie duettare con Annie Lennox in solidarietà ai bambini africani, mica perché mi andava, i miei zii si sarebbero impegnati di più a sintonizzare il televisore nella casa al mare.

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