La canzone di Natale cui ho più pensato nell’ultima settimana è Do they know it’s Christmas?, che fu la canzone del Natale dell’84, quando i musicisti inglesi decisero che avrebbero risolto il problema della fame nel mondo.
I nostri genitori non smisero di dirci di finire quel che avevamo nel piatto, «pensa ai bambini che muoiono di fame in Africa», la povertà del terzo mondo non credo sia stata risolta (sospetto di no: si è semplicemente smesso di parlarne, giacché le buone cause sono anch’esse mode), ma per il pop venne un grande anno.
Dopo la canzone dei rockettari inglesi, quella degli americani (We are the world), e poi il concerto che unì i due progetti e infelicitò le famiglie italiane, i cui bambini strepitavano perché nelle case al mare i televisori non prendevano il canale giusto: il Live Aid, forse ne avete sentito parlare. (Nel 2005, per il ventennale, s’organizzò il Live 8, che passammo tutti a sospirare: eh, ma vuoi mettere il primo).
La ragione per cui sto pensando tanto a quella canzone di Natale è fatta di due parole: pensa oggi.
Pensa oggi lo scandalo se, in una canzone di beneficenza per i più sfortunati, ci fosse il verso «stasera ringrazia Dio che tocchi a loro invece che a te». E pensa se, in un video della registrazione della canzone natalizia di beneficenza che passerà alla storia, non ci fosse uno straccio di donna se non a fare i cori.
Pensa se poi quando, meno d’un anno dopo, la canzone chiude il concerto di beneficenza del secolo, a un certo punto ti toccasse tirare in prima fila una corista perché t’accorgi che la stavano cantando tutti uomini. (La parte rilevante del Live Aid, nonché quella che i fusi orari delle case al mare ci permettevano di cercare di vedere, andava in onda da Londra; poi c’era la parte americana, a Philadelphia, e lì se non altro c’era Madonna).
Pensa se oggi Bob Geldof desse un’unica raccomandazione prima d’attaccare il primo verso, «Comincia David», e Bowie – la storia della musica nel 1985, un maschio bianco cis nel 2021 – sbagliasse le parole. Perché certo, è un privilegiato, non è abituato a guadagnarsi le cose, a prepararsi, a dover essere all’altezza, non come noi minoranze vessate che dobbiamo essere brave il doppio per ottenere la metà (come vado per il provino di minoranza vessata?).
Gli americani, che già nell’85 avevano capito che finiva a cancelletti, We are the world la equilibrarono molto di più tra i sessi (e tra i colori della pelle). E l’inquadratura da sotto in su, quella per far vedere bene i vestiti che se la fai a una donna in questo secolo ti danno il 41 bis, la riservarono a Michael Jackson.
(Allora come oggi, gli interventi si pesano, non si contano, e non importa quanti uomini ci siano: del video di We are the world tutti ricordiamo solo gli strilli di Cyndi Lauper. E fingiamo di dimenticare che quelli fossero gli anni in cui pronosticavamo che lei sì sarebbe durata, mica come quella Madonna, destinata a sparire in un amen).
Aggravante: al Live Aid di Londra c’è Sting che canta Every breath you take, che il presente considera un inno allo stalking e alla molestia che nessun concerto per bene dovrebbe ospitare (se poi lo mandi in diretta televisiva, non oso immaginare il Codacons). E i Dire Straits, con quella canzone in cui il personaggio del chitarrista «di Mtv» (parlandone da viva) viene riempito di soldi e le ragazze gliela danno gratis: mai sentito niente di più diseducativo, quasi peggio che il Dolceforno e la macchina per la maglieria che in quegli anni ci regalavano ottundendo le nostre ambizioni di studiose.
Ma non è solo per l’ingenuità maldestra dei tempi che furono, per la disattenzione alle quote di partecipazione e alla suscettibilità rispetto ai testi, che oggi il Live Aid non si potrebbe fare.
È perché ci metterebbero un presentatore, manderebbero in sovrimpressione i tweet, ci aggiornerebbero ogni trenta secondi sul televoto.
È perché gli artisti prima di partecipare dovrebbero contarsi a vicenda i cuoricini su Instagram, la compatibilità dell’agenda degli sponsor, valutare se per la loro immagine quella giusta causa sia la causa giusta.
È perché io preferisco chiedere soldi ai miei follower direttamente, io invece preferisco fare beneficenza tacendo ché dirlo mi sembra assai inelegante, io invece ho l’esclusiva come testimonial contro la guerra, io contro la deforestazione, io contro le buche di Roma.
È perché è anche difficile immaginare i calibri di cui stiamo parlando, non avendo l’epoca successiva creato quelli che Verdone chiamerebbe «colossi della musica».
È difficile fare delle analogie con l’oggi raccontando che in We are the world c’erano Tina Turner che aveva appena fatto What’s love got to do with it, Stevie Wonder che aveva appena fatto I just called to say I love you, Springsteen l’anno dopo Born in the Usa e Michael Jackson in mezzo tra Thriller e Bad. Forse l’unico che non fosse al picco della propria carriera era Bob Dylan, che però era Bob Dylan allora ed è Bob Dylan oggi.
È che se anche oggi lo star system non fosse fatto esattamente degli stessi, divenuti nel frattempo settantenni o ottantenni; se anche non fossimo impegnati a struggerci per quelli che intanto sono morti e a pensare che George Michael quel giorno lì aveva diciott’anni, che ingiustizia, che crudeltà; se anche esistessero dieci trentenni o quarantenni giganteschi, sarebbe impossibile farli stare su un palco senza che nessun manager dicesse «Solo se fa il singolo nuovo e fate vedere bene la copertina», senza che nessuno stylist pretendesse di sapere chi sta vicino al suo assistito e se i colori delle giacche siano compatibili, senza che si scannassero per l’orario di maggior share in cui cantare.
Forse l’ultimo momento in cui è stato possibile è stato il 2005, quando Michael Stipe si dipinse una mascherina blu intorno agli occhi, Robbie Williams fece Robbie Williams, e Madonna vestita di bianco uscì a salutare la donna africana che era stata una bambina salvata dalla morte per fame dal primo Live Aid. Ovviamente, già allora c’erano i saperlalunghisti che dicevano che Madonna aveva messo come condizione uscire sul palco mentre c’era l’ex bambina affamata, sapendo che così sarebbe stata nella foto più pubblicata il giorno dopo.
Avevamo già perso ogni possibile innocenza, rispetto all’85. Stavano per arrivare i social, e la prima a capirlo era stata Gwyneth Paltrow, che portò la figlia, con enormi cuffie fucsia, a sentire il papà che cantava Fix you. Il giorno dopo, la foto più pubblicata era la sua.