Ho letto una intervista sul Foglio in cui l’ex leader del Pci campano Antonio Bassolino racconta che, dopo un’elezione a Castellamare di Stabia, nella quale il partito era arretrato di qualche punto, Botteghe Oscure gli aveva chiesto di presentare una relazione (Bassolino scrisse ben 16 pagine) per spiegare i motivi di quel risultato.
L’episodio ricordato da Antonio mi ha riportato indietro di anni, quando nei partiti e nei sindacati, il dibattito era una cosa seria.
A me, in quegli anni, hanno insegnato che in politica gli errori derivano sempre da un’analisi sbagliata. Nelle relazioni e negli interventi i grandi leader del passato partivano sempre da un’analisi rigorosa del contesto politico, sociale ed economico e traevano dagli elementi, che a loro sembravano importanti, gli indirizzi per l’iniziativa del partito o del sindacato.
Coloro che dissentivano dalla linea che veniva proposta si sentivano in dovere di partire da un’analisi diversa, che giustificasse le loro posizioni. Storico fu il confronto, alla fine degli anni ’50, tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao – che coinvolse sia il Pci che la Cgil – sul capitalismo in Italia, dopo il miracolo economico e sulle conseguenti trasformazioni che avrebbero interessato anche le classi lavoratrici.
Questo dibattito influenzò le successive linee politiche, trasferendo l’iniziativa di classe dal Mezzogiorno e dall’agricoltura all’industria manifatturiera
Della stessa importanza fu la discussione sui motivi della sconfitta della Cgil alla Fiat nelle elezioni delle Commissioni interne della Fiat nel 1955 e della FLM nel 1980. Un confronto di analogo spessore venne evitato ed eluso, dalla Fiom, dopo la sonora sconfitta nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco nel 2010.
Ma tutti questi episodi sono marginali rispetto a quanto si attende dall’esito delle urne il 25 settembre: una robusta vittoria della coalizione di centrodestra a guida di Giorgia Meloni, a cui corrisponderebbe una altrettanto vistosa sconfitta del centrosinistra e del Partito democratico.
L’aspetto più incredibile per una persona della mia generazione è quello di assistere a un cambiamento di tale portata che sta ponendo preoccupazioni nei nostri partner e alleati, senza che nessuno si azzardi a interrogarsi sui motivi.
Anche nel 2018 non si seppero (o non si vollero) approfondire i risultati di quella elezione. Ma se allora si trattò di una ventata di poujadismo sempre in agguato nelle società occidentali, oggi, se dovessero avverarsi le previsioni, ci troveremmo di fronte ad una svolta che non nasce dai vaffa urlati nelle piazze o da una rivolta plebea.
L’identità di Fratelli d’Italia ha solide radici nella storia del Paese; ha raccolto l’eredità (è questo il senso della fiamma tricolore che si trova nel simbolo) che ha vissuto, in condizioni di apartheid politico, durante settant’anni di regime democratico.
È ovvio che la nuova realtà politica e sociale abbia contribuito a cambiare anche il profilo di quel partito. Ma le sue origini destano ancora preoccupazioni e pongono degli interrogativi a cui non è stata data una risposta convincente.
Che cosa sta portando tanti italiani (sia pure a livello di una maggioranza relativa) a saltare un fosso che per decenni era stato ritenuto persino un confine invalicabile? Trasformazioni di tale portata (in fondo c’è una linea di continuità, benché con protagonisti differenti, con l’impronta antisistema del voto del 2018) non si spiegano con le analisi superficiali della sociologia: come il voto liquido e quant’altro.
C’è molto di più. Quando il segretario della Cgil continua a ripetere che i lavoratori si sentono più rappresentati dalla destra che dalla sinistra e che addirittura la sua organizzazione non si schiera in questa campagna elettorale perché «in molti casi sia governi di destra e sia governi che si richiamavano alla sinistra hanno fatto politiche che hanno peggiorato le condizioni di vita e di lavoro delle persone».
La destra può anche dissimulare i suoi valori ma, alla fine, riemergono. Certo la destra non è più una forza di conservazione economica; non è più il partito dei padroni, ma è divenuta l’alfiere del populismo, le cui promesse possono essere fatte e sostenute solo nell’ambito di un altro «ismo» malefico: il sovranismo.
Il vero nemico della destra è la società aperta, perché solo nell’isolamento e nell’autarchia ci si può illudere che nulla cambi. Ecco allora che i nemici delle classi lavoratrici non sono più i padroni, ma quelle forze politiche che, tra mille difficoltà e contraddizioni, cercano di riposizionare i fondamentali diritti sociali all’interno dei nuovi assetti dell’economia; che è poi il solo modo per poterli difendere e trasmettere alle generazioni future.
In questa campagna elettorale – mutatis mutandis – sono emersi toni da Terza Internazionale, quando i principali avversari dei massimalisti e dei comunisti non erano i fascisti e i nazisti, ma la socialdemocrazia. Tra i 21 punti che Lenin aveva imposto al Psi per essere accolto nell’Internazionale c’era l’espulsione dei riformisti.
La maggioranza massimalista di Giacinto Menotti Serrati si rifiutò di compiere questa operazione al Congresso di Livorno nel 1921 (da qui ebbe luogo la scissione del Pc d’I). Ma, poi, Serrati dovette cedere l’anno dopo, poche settimane prima della Marcia su Roma.
Paradossalmente nel dibattito elettorale di questi mesi è emersa una singolare teoria: la classe lavoratrice vota a destra perché la sinistra non svolge più la sua missione.
Ne deriva che, per risorgere, la sinistra deve ritrovare se stessa. E bandire il deviazionismo riformista.
Il regista Ken Loach – sommo guru della gauche – si è fatto latore di un messaggio in vista del voto di domenica: «Le persone votano per la destra quando sono spaventate, insicure e non hanno fiducia e questa è una diretta conseguenza del fallimento del centrosinistra, dei socialdemocratrici», ha detto il regista in piena logica terzointernazionalista. «Loro sono i responsabili perché hanno negato e non hanno rappresentato i bisogni della classe operaia. La lezione che dobbiamo trarre è che dobbiamo creare una nuova sinistra unita il cui programma sia dedicato a beni comuni, controllo democratico, protezione dell’ambiente e difesa dei servizi pubblici», ha aggiunto.
Durante la campagna elettorale le medesime considerazioni erano venute anche da autorevoli esponenti del Partito democratico. Quale è stata – secondo le nuove teorie – la Grande Eresia che ha tarpato le ali all’angelo vendicatore della sinistra con le carte in regola? Il pacchetto del jobs act, che è composto da una legge delega e da 8 decreti delegati, ma per i redenti tutto si riduce all’istituzione del contratto a tutele crescenti e alla disciplina ivi prevista per il licenziamento individuale illegittimo.
Andrea Orlando, ministro del Lavoro (in sonno), lo ha ammesso in una intervista: «Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato».
Enrico Letta si è spinto più avanti a Cernobbio. Si è esposto – insieme alla critica del Jobs act – anche all’abiura della terza via di Tony Blair: «Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico».
Spero che arrivi un giorno in cui i nuovi leader di una sinistra avviata verso una sconfitta storica spieghino come ha potuto Tony Blair governare per 10 anni ininterrotti, senza mai essere battuto in una elezione. Dopo di lui il Labour sta ancora a pettinare le bambole.