Vocazione masochistaLa doppiezza elettorale di Letta è la prima causa dell’annunciato fallimento del Pd

Nel costruire la coalizione contro la destra, il segretario ha sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare e ora sia Azione sia i Cinquestelle gli stanno sottraendo voti

di Randy Laybourne, da Unsplash

La strategia di Letta doveva portare al sorpasso di Fratelli d’Italia come primo partito da parte del Pd. Alla fine potrebbe portare sì a un sorpasso, ma diverso, quello del Pd da parte dei Cinquestelle. D’altra parte, la strategia elettorale dei democratici è stata, fin dal primo momento, disallineata dalla loro retorica, quella del fronte comune e della coalizione di salvezza nazionale contro le destre.

È stata una strategia spregiudicata, ma suicida. Tutt’altro che rinunciataria, anzi addirittura temeraria, articolata su tre obiettivi ambiziosi: isolare e svuotare il M5S, affiliare e subordinare le componenti liberaldemocratiche, inglobare nel Pd una serie di forze minori. Infatti la lista “Pd – Italia democratica e progressista” è un contenitore che incorpora anche Articolo 1, Psi, Demos, Radicali italiani, Volt e Repubblicani europei.

Le scelte di Letta, se le si giudica razionalmente, sono state finalizzate unicamente a massimizzare il risultato del Pd e a rafforzare la sua egemonia, anzi il suo monopolio sul campo alternativo a quello della destra. Non a scongiurare il pericolo autoritario, non a impedire la vittoria della destra orbaniana. Questo tentativo sarebbe dovuto passare dalla conferma del sostegno a Draghi e dalla costruzione di una compagine coerente con gli impegni dell’esecutivo uscente. Opzione mai neppure considerata dal Pd.

Con la sua strategia, invece, il Pd ha favorito quelli che avrebbe voluto elettoralmente accoppare, cioè i grillini di Conte, che per questa ragione sono stati tenuti fuori dall’alleanza. Le pregiudiziali programmatiche sono state solo un pretesto, visto che in coalizione col Pd c’erano Verdi e Sinistra italiana, che sono indistinguibili dal M5S.

Allo stesso tempo, il Pd, prima reclutando e compromettendo Calenda, poi perdendolo per strada, non lo ha certamente favorito né ha aumentato la sua presa sugli elettori della destra e ha consolidato l’immagine del campo progressista come di un luogo politico più affollato all’uscita che all’entrata.

Ammesso e non concesso che quello di fermare le destre fosse un progetto elettorale credibile e vincente – non lo era – che cosa avrebbe dovuto fare Letta per perseguire questo risultato?

Stando ai dati disponibili quando vennero definite le coalizioni, l’alleanza del Pd con Azione/+Europa senza Movimento 5 stelle avrebbe sottratto alla destra meno seggi rispetto a un’alleanza del Pd con Movimento 5 stelle senza Azione/+Europa, anche se in entrambi i casi la coalizione non avrebbe raggiunto una dimensione tale da potere davvero battere la destra.

Solo nel caso di un’alleanza sia con il Movimento 5 stelle sia con Azione/+Europa Letta avrebbe potuto pensare di entrare effettivamente in partita e certo non da favorito. Ma questo vero campo largo non è mai stato neppure in discussione. Né Letta ha mai neppure considerato di imbarcare Matteo Renzi e di revocare la damnatio memoriae sulla sua persona. Anche se la motivazione ufficiale è stata, come è noto, che l’ex rottamatore facesse perdere più voti di quanti ne portasse.

Calcolo, questo, che è stato risparmiato alla coppia del cocomero, Fratoianni e Bonelli, la cui lista, se va bene, supererà di un soffio lo sbarramento del 3 per cento e per tutta la campagna elettorale è stata agevolmente usata dagli avversari del Pd come prova provata della sua subordinazione alla sinistra radicale. A scapito della convenienza, però, il Pd è rimasto fedele alla dottrina del “nessun nemico a sinistra”.

Un mese e mezzo fa, comunque, non ci sarebbe voluto molto a capire che – sempre nella logica del “fermare le destre” – se occorreva scegliere tra Conte e Calenda, vista la loro dichiarata incompatibilità, per il Pd sarebbe stato più logico tenere fuori chi poteva teoricamente prendere i voti in uscita dal centro-destra ed era comunque più piccolo, cioè Azione, piuttosto che chi poteva catturare quelli in uscita dal Pd e conservava un bottino cospicuo di consensi, cioè il M5S. Ma Letta ha fatto esattamente il contrario.

Tutto ciò che il segretario del Pd ha tentato di fare, senza riuscirci, e ha fatto, senza valutarne le conseguenze, è stato dunque incoerente con l’obiettivo di fermare le destre e controproducente con quello di accreditare il Pd come potenziale primo partito.

Infatti, al fine di indebolire il centrodestra, avere un terzo polo come quello inizialmente promosso da Calenda e +Europa e in grado di coinvolgere Italia Viva sarebbe stato vantaggioso. Con la disgregazione di Forza Italia, dopo la sfiducia a Draghi e la migrazione di parte delle sue figure più rappresentative in Azione, l’ipotetico polo liberal-democratico – che con +Europa e Italia Viva avrebbe avuto anche un elettorato piuttosto fedele ed identitario – sarebbe stato competitivo rispetto all’elettorato moderato non di sinistra. Non sappiamo quanto competitivo, ma certo più di qualunque altro soggetto.

Al contrario, Letta ha fatto di tutto per giungere a un accordo con Azione e +Europa. In questo modo il risultato, all’inizio, è stato di allontanare per qualche giorno Sinistra italiana e i Verdi dalla coalizione di centrosinistra; allo stesso tempo, se l’accordo con Calenda e +Europa fosse andato in porto, il nuovo polo liberale avrebbe, da una parte, portato alla totale ed inutile dispersione dei voti di Italia Viva e dall’altra alienato con grande probabilità buona parte dei potenziali elettori della nuova offerta calendiana. Un’Azione con Fratoianni, Bonelli e Di Maio e a braccetto con De Luca e Emiliano non avrebbe preso un voto berlusconiano e ne avrebbe persi pure molti tra quelli strettamente calendiani, tra quanti cioè avevano creduto all’impegno del leader di Azione di non stare mai con partiti e esponenti del populismo sedicente progressista.

Naturalmente, si potrebbe pensare che i danni causati dalla miopia di Letta siano stati contenuti, dal momento che l’alleanza con Calenda non è andata in porto, ma non è così. L’effetto della mancata alleanza è stato negativo per tutti. Naturalmente la responsabilità non è solo addebitabile a Letta, nondimeno il segretario del Partito Democratico, non essendo un ingenuo, doveva (e poteva) ben prevedere che un sistema di alleanze parallele, con Calenda da una parte e Bonelli e Fratoianni dall’altra, avrebbe creato frizioni interne e danni d’immagine esterni a tutti i protagonisti della tenzone.

Il risultato finale è stato quello di indebolire e rimpicciolire rispetto alle attese il centrosinistra, rendendolo più vulnerabile agli attacchi della destra, e destabilizzare Azione portandola alla rottura della federazione con +Europa. Calenda ha pagato in termini di immagine sia la scelta di avere fatto obtorto collo una alleanza con il Pd, sia quella di averla poi sciolta unilateralmente. I

n conclusione, ciò che Letta ha ottenuto è stato indebolire il polo che più avrebbe potuto contendere voti alla destra e debilitare la stessa coalizione di centrosinistra. Ma se Calenda poi è rapidamente ripartito e risalito nei sondaggi, Letta ha iniziato da quel momento a pagare l’immagine di sicuro perdente.

Quanti sostengono che un polo libdem in posizione elettoralmente autonoma sia oggi il maggiore fattore di rischio per la sinistra e il migliore alleato della destra fingono di non sapere che per i candidati uninominali della sinistra a mancare all’appello sono innanzitutto i voti del M5S, che Letta ha pensato ingenuamente di svuotare proprio con il ricatto del voto utile, continuando contestualmente a rafforzarlo e legittimarlo con il progressivo spostamento del Pd su posizioni contigue o sovrapponibili a quelle grilline.

In questi ultimi giorni di campagna elettorale si è poi arrivati al grottesco degli attacchi personali a Calenda e Renzi per la loro complicità “oggettiva” con la Meloni e di complimentosissime promesse di alleanze future al M5S e a Conte, che peraltro sdegnato rifiuta e chiede la testa di Letta per sedersi al tavolo della pace.

Secondo il principio del voto utile, peraltro, oggi al Sud molti democratici potrebbero logicamente ammettere che i candidati più competitivi e in grado di “fermare le destre” sono proprio quelli del M5S, premiati dalla risalita nei sondaggi di Conte. La retorica di Letta a questo finisce per portare: a giustificare un voto patriottico contro il Pd.

Ci sono molti dubbi che il Pd avrebbe potuto montare una coalizione competitiva con la destra aggiungendo alla rinfusa carrozze alla carovana progressista. Ma quel tentativo sarebbe stato più coerente con la retorica ciellenistica dell’emergenza democratica. Probabilmente sarebbe stata una scelta impraticabile, prima ancora che perdente, ma, per usare una parola amata dagli ex alleati grillini, onesta. Invece con un “tu sì e tu no” così protervo e padronale il Pd ha fatto una scelta autolesionistica anche per la sua doppiezza.

Questa è la verità dolorosa, che fino al 25 nessuno potrà pronunciare, ma da cui il 26 partiranno i regolamenti di conti al Nazareno.

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