Dura solo due giorni, dal 6 all’8 settembre. L’ingresso è libero, si entra e si esce dalle porte del mastodontico museo Maxxi progettato da Zaha Hadid, nel cuore del quartiere Flaminio di Roma. E non conviene perderla, perché il senso di “Personae” è sollevare interrogativi sull’umano. Interrogativi non tanto sulla sua funzione, sul suo destino o sulle sue origini, come molte altre esibizioni oggigiorno fanno o hanno fatto – ricordiamo ad esempio “Homo Faber” a Venezia – ma sulla sua essenza.
Che cos’è l’essere umano? Bruno Pellegrino tenta di rispondere restituendoci volti, maschere, schiere di espressioni ossidate nel ferro e poi dipinte a colori vivaci, di blu, di verde, di arancione. Ogni opera e dunque ogni viso sembra avere la sua storia e la sua identità. E questo nonostante abbiano tutte lo stesso sguardo serio, la riga della bocca amorfa, rigida, senza mai l’accenno di un’intenzione emotiva.
Non a caso l’autore si è liberamente ispirato a “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, il dipinto del 1901 diventato poi un manifesto della lotta proletaria e socialista: una massa di contadini che avanzano tutti insieme, coesi e uniformi, verso un avvenire di emancipazione. Questa fu l’interpretazione generica, allora. In realtà, oggi sappiamo che il luogo di approdo di quell’esercito di persone che si stagliava in primo piano non era ben definito e conteneva insospettabili e subdole contraddizioni. Eppure, ciò su cui nessuno può trovarsi in disaccordo è l’evidenza del loro marciare.
Nella marcia i tratti individuali si confondono per valorizzare l’epifania del gesto collettivo. Ecco allora che oggi gli esseri umani non sono più ripresi nell’atto di camminare. Restano soltanto volti che galleggiano, solitari, privi di corpo e di radici.
Questa scelta visiva ci rimanda al tempo in cui viviamo, globalizzato e digitalizzato, in cui sempre più gli oggetti, le relazioni e i luoghi sono sollecitati a fluttuare, senza fisicità, in un cyber-spazio che pure dovrebbe rendere tutto prossimo, vicino e accessibile.Pellegrini sembra suggerire che la perdita del corpo equivale alla perdita di umanità. L’umanità come sostantivo singolare femminile. L’umanità come finora l’abbiamo conosciuta. È una sfida che interessa e scuote le viscere di ogni latitudine artistica, politica, storica, scientifica: creare un uomo nuovo, immaginarlo, riadattarlo, riprogrammarlo.
I cambiamenti climatici, l’intervento sempre più massiccio e dilagante delle nuove tecnologie, e le attuali battaglie in merito all’identità di genere spingono a riconsiderare l’accezione dell’umanità in merito a se stessa. Chi siamo stati, chi siamo adesso, e cosa saremo? Forse questi volti immobili e granitici non sono che sembianze transitorie di una fase destinata a scomparire. Magari, invece, rappresentano un indice o una spia del futuro.
Del resto, Personae, come suggerisce il sottotitolo dell‘esposizione, è un termine latino che secondo l‘enciclopedia Treccani significa «individuo della specie umana senza distinzione di sesso, età o condizione sociale». Un‘avanguardia a cui stiamo tendendo o una distopia da scongiurare?