No, stavolta non parliamo del piacere della buona tavola o dei piatti del cuore, né di galline o conigli felici (sugli ortaggi che piangono ci sono ancora opinioni controverse, ma non si sa mai!), ma piuttosto del modo in cui il cibo (e il non cibo) viene usato per suscitare emozioni sempre più nette, definite e riconoscibili in chi lo osserva (o, viceversa, ne percepisce l’assenza), trasformandolo in un’icona e lasciando sempre meno spazio all’interpretazione del non detto.
Non è buono ciò che è buono…
È noto fin dalla notte dei tempi che mangiare non sia solo un’esigenza fisica e un piacere, ma anche un atto sociale e persino politico, in cui intimità privata e dimensione pubblica si intrecciano. Ciò che si mette nel proprio piatto e ciò che si offre agli altri diventa un simbolo, un mezzo per trasmettere un messaggio, per condividere un pensiero, per esprimere e suscitare un sentimento. E se il gesto stesso di cucinare e imbandire la tavola rappresenta un atto di cura per se stessi e per i commensali, l’esito emotivo di ogni pasto è soggetto a mille variabili personali, collegate all’unicità del contesto, della compagnia, delle capacità evocative di ciò che viene servito. Per questo mangiare non è mai un fatto oggettivo “neutro”, bensì un atto interpretativo intimo e complesso.
Cibo sì… cibo no
Così, tra il foodporn dei social, il voyeurismo alimentare stimolato dalla pubblicità, le controverse forme assunte dalla body positivity che riabilita i fisici curvy (talvolta a scopo di marketing) e le provocazioni che esibiscono gli effetti di un rapporto problematico con la tavola (come gli scatti choc di Oliviero Toscani rimasti esposti a Palazzo Reale fino alla conclusione dell’ultima Milano Fashion Week), il messaggio è chiaro: mangiare deve renderci sani, belli e felici, rispondere a esigenze psico-emotive che neppure sapevamo di avere ed evocare situazioni di appagamento totalizzante che trascendono i piaceri della buona tavola. Eppure tutto parte da lì, da ciò che abbiamo nel piatto e da quello che mettiamo nel carrello, per poi proiettarsi in una dimensione esistenziale assoluta. Chi ne è escluso resta condannato al digiuno dell’anima.
Sentimenti in scatola (o in tavola)
«Abbiamo tutti bisogno di un po’ di tenerezza» recitava, fino a qualche mese fa, lo slogan pubblicitario di uno storico marchio che da oltre 45 anni accompagna la prima colazione degli italiani. E la dimensione più adatta per coltivare questo aspetto dell’esistenza quotidiana (secondo gli antropologi del cibo e secondo la Gdo) è per eccellenza quella casalinga dei pasti in famiglia, in cui anche la colazione in pieno caos mattutino assume un significato rassicurante e la merenda dei bambini diventa una festa e un momento di gioco, in cui basta un piatto di spaghetti per innamorarsi e il sugo giusto per appianare antichi rancori e farsi dei nuovi amici.
L’emozione che ruota attorno al cibo è diventata merce di scambio: il prezzo pagato per un marchio, un piatto, un menù, un vino non serve ad acquistare un prodotto, un’esperienza, un momento, bensì a scatenare una cascata di reazioni interiori sempre più spesso banalizzate e standardizzate, perché previste e pilotate da chi le propone, e sottratte a quell’individuale percorso psico-sensoriale che è l’anello di collegamento tra il cibo e il sentimento, permettendo a ciascuno di avere la “propria” ricetta del cuore, la torta della “propria” nonna o il “proprio” pranzo tradizionale della domenica.
Insomma, in un mondo e in un’epoca in cui si parla sempre più di cibo, lo si fotografa, lo si condivide sui media, lo si trasforma in uno scintillante accessorio per dare lustro alla propria immagine sociale, mentre il lessico culinario e lo sperimentalismo gastronomico si complicano, sembra venir meno la capacità (le occasioni, il tempo e la voglia) di comunicare attraverso il linguaggio del cibo a livello domestico, invece di acquistare questi messaggi altrove, confezionati da altri o da asporto.
Il cibo con il sorriso
L’emblema di questo spostamento dall’uso del cibo per comunicare all’acquisto di emozioni edibili (saltando il passaggio dell’interpretazione e del ricordo legato a gesti e aromi, nella speranza di sopperire all’assenza di una casa con la staccionata bianca e al surrealismo psico-gastronomico che può trasformare un biscotto in una dichiarazione d’amore) è rappresentato dall’adozione, anche a tavola, della stessa immediatezza di linguaggio che ormai viene utilizzata in tutti gli ambiti della comunicazione, soprattutto digitale.
Così anche il cibo ha accolto smiles, gift ed emoticon (o emoji), le iconiche “faccine” che hanno cambiato il modo di raccontare gli stati d’animo, appiattendo quei sentimenti soggettivi, variegati e complessi, che siamo sempre meno abituati a esprimere con gesti e parole.
Dai 10 pancake “espressivi” lanciati sul mercato da Mulino Bianco in occasione del World Emoji Day 2022, all’Emoji Ice Cream, ideato da Alex Cattaneo, la limited edition dedicata dalla gelateria Baires 1997 di Torino alle emoticon più apprezzate e digitate nelle conversazioni via chat o sui social (ordinabile in esclusiva sull’app di Deliveroo), fino all’approccio ironico e “pseudo salutistico” con cui Burger King ha lanciato il Poop Emoji ice cream, il gelato dalla forma provocatoria che tuttavia è dichiaratamente privo degli additivi artificiali che in essa vengono identificati: la “costruzione” dei sentimenti legati al cibo si è trasferita sul piatto (e sullo smartphone) e ci viene servita già pronta al consumo.
Tornare alla spontaneità (ragionata)
Ma cosa succederà quando anche scegliere i prodotti di un brand ruffiano non basterà più a farci illudere di felicità, se i menù degustazione smettessero di guidarci nell’esplorazione del nostro inconscio emotivo gourmet, o nell’eventualità ci accorgessimo che neppure giocare con il visual-food serve per esprimere a pieno ciò che vorremmo dire a tavola?
Inevitabilmente bisognerà ricominciare a cucinare (magari insieme), a spulciare i ricettari delle nonne e a chiedere consiglio alle donne anziane della famiglia, a organizzare situazioni di convivialità che riportino l’emozione dal piatto al momento stesso della sua preparazione e del suo servizio e, perché no, a inventare nuovi rituali e nuove tradizioni legati al gusto.
Riappropriarsi del “qui e ora”, riportare il cibo alla sua natura di “momento” da vivere fuori da Instagram, senza imitare la pubblicità e senza rispettare i dettami di un percorso gastronomico prefissato. In poche parole: più sentimento, meno emoticon; “più cibo, meno food” (cit.).