Se non avete ancora ascoltato “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.
All’ultimo G7 in Bavaria a fine giugno, è stata la grande assente nella foto ufficiale, causando titoli e strilli che ne decretavano la dipartita finale, la morte dell’ultimo baluardo di decenza formale, la fine della civiltà così come l’abbiamo sempre immaginata. Di chi parliamo? Della “Signora cravatta”, che nessuno dei leader del mondo libero, da Boris Johnson a Draghi passando per Macron, indossava. Un’affermazione, quella relativa alla sua scomparsa, un po’ troppo frettolosa, e che fa scaturire due domande, ugualmente legittime: il fatto che alcuni tra i politici più importanti non la indossino in una foto ufficiale, è un dato incontrovertibile della loro decadenza? E se non indossano più le cravatte proprio loro, i simboli viventi delle istituzioni, come si sta evolvendo l’estetica del potere?
Iniziando dalla prima domanda, si può dire che la risposta non sia così scontata: di certo, le cravatte, così come tutto il guardaroba formale, hanno ricevuto un colpo pressoché mortale dalla pandemia, non che prima invece fossero un elemento essenziale del guardaroba maschile. Nel pezzo “Ties are dead. Or are they?”,del Business of fashion, si ricorda infatti, come ben prima della pandemia alcuni sancta sanctorum dell’abbigliamento formale maschile avessero già «allentato il nodo», sul dress code da sfoggiare in ufficio: sia JP Morgan che Goldman Sachs (rispettivamente nel 2016 e nel 2019) hanno adottato delle regole di abbigliamento più flessibili, che sposavano la tendenza all’informale, pur rimanendo all’interno di un perimetro di eleganza classica statunitense, quella fattasi stereotipia indosso all’American Psycho Christian Bale o alla Matthew McConaughey di Wolf of Wall Street.
Una tendenza, quella ad adottare un abbigliamento meno rigido (seppur non meno autorevole) che ha visto una spinta propulsiva in figure divenute iconiche, dotate di una loro uniforme: un’onda lunga partita da Steve Jobs e dal suo maglioncino a collo alto con i jeans, che prosegue con Mark Zuckerberg e le sue felpe, e scende a cascata su tutti i milionari, o aspiranti tali della Silicon Valley, che rinnegano i formalismi vestimentari come metodologia per validarsi agli occhi del pubblico generalista.
Una tendenza che è poi esondata con la pandemia, tanto da aver causato un sovvertimento dei classici canoni di eleganza: nell’articolo “Are ties dead?”, del Wall Street Journal, si racconta del disagio provato già nel 2019 da un richiedente iscrizione al ristretto club della Soho House, nella sua sede del Meatpacking district, a New York. Al tale Christian Conner, consulente media, era stato fatto notare – durante il tour della sede newyorkese – come non fosse il caso di indossare una cravatta (nello specifico caso, indossava una cravatta di Gucci) al fine di creare un’atmosfera più casual e rilassata.
Il pezzo prosegue, corroborato da altre testimonianze di giovani professionisti che, pur possedendo una variegata quantità di cravatte, hanno smesso di indossarle perché terrorizzati dall’idea di divenire oggetto del ridicolo, con battute sul genere «hai un colloquio oggi?».
Se è però vero che di cravatte se ne vendono sempre meno, come dimostrano i dati di Kantar che sostengono come nel 2019 le vendite siano scese del 6% (e nel 2020 addirittura del 42%), secondo un report di Management one è troppo presto per decretarne la fine. Le ultime sfilate milanesi, ma anche parigine, parlano tutt’altra lingua: la cravatta si è vista da Thom Browne (con camicia, blazer e pantaloncino), da Comme des Garcons, Tom Ford, Prada, addirittura da Dries Van Noten, abbinata a dei pantaloni cargo, così come nella Exquisite di Gucci, collezione relativa al prossimo inverno.
Il general business manager della catena americana Macy’s, Sam Archibald, ha dichiarato al WSJ che il 2022 non sarà di certo l’Armageddon delle cravatte: il cambiamento è semplicemente nella tipologia. Addio alle cravatte da banchiere, scure, benvenute cravatte in colori accesi o con stampe. Una tendenza confermata al Bof da George McCraken, fashion director di un’altra catena, Bonobos, che sostiene come sia cambiato il paradigma alla base: le cravatte non si indossano più come complemento ad un’uniforme lavorativa, ma come accessorio divertente, indicativo di una brillante personalità.
Più a livello generale, nonostante la decade passata sia stata caratterizzata dal proliferare della tendenza dello streetwear, il mercato dell’abbigliamento da uomo è, secondo i dati, in grande crescita: secondo Euromonitor international si prevede, entro il 2026, che questo mercato varrà 547,9 miliardi di dollari, con un tasso di crescita del 5,8%. Il mercato dell’abbigliamento femminile, pur più importante, cresce invece con una percentuale del 5,3%. Ad andare per la maggiore però, non sono gli articoli che ci si potrebbe immaginare, come le sneaker o le felpe: secondo Michael Kliger, ceo di Mytheresa, retailer di lusso nato nel 2006, dallo scorso anno quotato in borsa, ad esser più richiesti, tra gli uomini sono le camicie, i mocassini, le giacche più casual, ma non per questo sportive.
Una “casualisation” che troverà di certo modo di continuare ad usare le cravatte, che potrebbero aver compiuto, nel giro di qualche anno, tutto il percorso circolare che porta un capo o un accessorio formale dall’essere usato obbligatoriamente, ad entrare nella quotidianità, sconfinando nella banalità e nell’odioso mainstream, diventando sinonimo di un gruppo sociale per nulla vicino alla sensibilità contemporanea, per poi essere abbandonato.
Ed è a questo punto, rinnegato un po’ da tutti, che, cambiandogli pelle e destinazione d’uso, la moda e i circoli di insider iniziano a riutilizzarlo, sicuri di potersi riconoscere tra loro, pochi eletti che sanno cogliere e maneggiare il lato nascosto della semiotica dell’abbigliamento, sconosciuto ai più. Un “cerchio della vita” modaiolo che, nel caso della cravatta, si è aperto e chiuso nello spazio di un decennio: a testimoniarlo, il trend nato su TikTok dei Gentleminions, adolescenti anglosassoni che per festeggiar il ritorno nelle sale della saga dedicata agli organismi unicellulari gialli, si sono presentati in massa nei cinema vestiti come il cattivo della pellicola: in completo formale, con necessaria, ma ironica, cravatta.
Tornando però all’inizio, e alla foto del G7, se è logico pensare che l’abbandono della cravatta da parte dei leader mondiali sia una mossa strategica, di comunicazione, per mostrare una maggiore vicinanza al popolo, come sta cambiando l’estetica del potere, in tempi caratterizzati, tra l’altro, da una pandemia e da una guerra? Tutti i politici, negli ultimi due anni, per entrambe le ragioni, hanno abbandonato in alcune occasioni l’abbigliamento formale per farsi ritrarre in outfit meno ingessati: hanno fatto il giro del mondo le foto di Macron in felpa con logo CPA 10 (il comando 10 dei paracadutisti francese) anche se il presidente di stanza all’Eliseo è stato abile da sempre nell’utilizzo di un guardaroba metamorfico, che cambiava a seconda dell’interlocutore o dell’elettore.
[ 🇫🇷 FRANCE ]
🔸 Emmanuel Macron a revêtu un sweat-shirt du commando Parachutiste de l'Air no 10 (CPA 10) ce dimanche au Salon doré, Élysée.
📷 Soazig de La Moissonnière pic.twitter.com/qnYHFIgePw
— (Little) Think Tank (@L_ThinkTank) March 14, 2022
Lo aveva fatto notare già il New York Times nel 2017, sottolineando tramite immagini come “Le Président” adottasse completi (in)gessati se doveva parlare alle élite, o come invece si mettesse giacche blu e grigie ben più economiche, realizzate da un sarto parigino scovato dal suo team, Janus et Cie, quando doveva rivolgersi invece a delle fasce più popolari. Ad agosto 2021 è comparso su TikTok in t-shirt, per invitare i giovani francesi a vaccinarsi. «Nel caso di Macron però l’adozione di un look più casual è anche legata alle critiche che gli sono state mosse negli anni, rispetto alla quantità di soldi spesi in abbigliamento da lui e dalla consorte», spiega Maria Cristina Marchetti, autrice del libro “Moda e Politica: la rappresentazione simbolica del potere” e professoressa di Sociologia dei fenomeni politici alla Sapienza di Roma.
In effetti, nonostante la situazione generale abbia sicuramente portato la classe politica ad adottare un look più casual, ci sono situazioni specifiche che hanno le loro peculiarità. Un altro caso è quello di Boris Johnson, ormai ex Premier di Downing Street, la cui peculiare incuranza verso l’abbigliamento, con quei capelli sempre indomabili e i completi dai fitting spesso sbagliati, secondo Marchetti è stata correlata al suo desiderio di “dimostrarsi, a differenza dei suoi predecessori, non deferente nei confronti del potere, impersonato in maniera simbolica dalla Regina.
Pur essendo rappresentante del partito conservatore, quello più classicamente vicino alla monarchia, ha voluto dimostrare con tutte le sue apparizioni e appuntamenti con la Regina, che non è impaurito, o in alcun modo deferente, rispetto alla figura di Elisabetta II, perché lui risponde ai suoi elettori, e solo a quelli. Un atteggiamento mai avuto in precedenza, neanche dai leader dell’opposizione, basti pensare a Tony Blair, leader laburista, che a volte è sembrato persino troppo intimorito dall’autorità che simboleggia – solo appunto in maniera simbolica – la Regina». E se è comprensibile che il leader ucraino Zelensky si faccia riprendere o partecipi a dei dibattiti da remoto, in discorsi al Parlamento europeo, britannico, o al congresso americano, con indosso una t-shirt verde militare pronto, come il suo popolo, a controbattere all’invasione russa, persino sua moglie ha abbandonato, parzialmente, i paramenti classici della First lady e, impegnata a luglio in un viaggio non ufficiale a Washington, ha mandato dei messaggi precisi con il suo abbigliamento: tutti abiti di designer ucraini, per sostenere il proprio paese.
Pur non indossando un guardaroba da campo di battaglia – il ruolo di una first lady è storicamente quello di mediare, ammorbidire le istanze del coniuge, renderle più materne – Olena Zelenska ha chiesto espressamente, nel suo discorso al Campidoglio, «armi, non per dichiarare una guerra, ma per difendere il nostro Paese», e lo ha fatto in un abito verde oliva, lavallière, con una striscia di tessuto a mo’ di sciarpa che scende dal collo, dalle spalle importanti: una vera e propria versione femminile di una divisa militare di alto grado, firmata dalla designer Lilia Litvoskaya, corredata da una spilla floreale del brand ucraino Guzema, parte di una collezione chiamata Nezalezhna, o “indipendente”.
E proprio parlando di Zelensky, Vanessa Friedman del New York Times aveva scritto, nel pezzo “The man in the olive green tee”, come l’adozione della semplice t-shirt fosse una mossa astuta da parte di un uomo che ha un passato da attore comico, e sa benissimo quanto l’abbigliamento possa essere usato come una forma di propaganda, anche se l’economista americano Peter Schiff aveva twittato, dopo averlo visto in collegamento al congresso «comprendo che i tempi siano difficili, ma il presidente non ha un completo?». Un’affermazione da burocrate, incapace di rendersi conto, come spiega la Friedman, che «la t-shirt non era certo un segno di mancanza di rispetto verso il Congresso, ma un segno di rispetto e fedeltà a coloro che stava rappresentando (i cittadini ucraini, ndr). Un promemoria di ciò che accade fuori dalla sua porta. Indossando l’uniforme militare, invece che l’uniforme delle persone del congresso, ha reso reale il surreale, proprio come faceva il video che ha mostrato alla sala poco dopo, di bombe che cadevano sulle sue città».
Rappresentandosi come uno dei suoi cittadini, come un soldato semplice, Zelensky ha mostrato solidarietà rispetto ai suoi connazionali che combattono nelle strade, ricordando al mondo le sue umili origini, cosa che lo accomuna a molti dei suoi connazionali. Certo anche altri leader stanno indossando paramenti simil militari (facilitati da una moda che da tempo flirta con combat boot e uniformi) ma i risultati sono abbastanza diversi: a febbraio il leader ceceno Ramzan Kadyrov è stato fotografato con pantaloni cargo e scarponcini che sembravano assai simili ai Monolith di Prada, lanciati nel 2019: un’immagine, quella che ritraeva il leader omofobo e sodale di Putin, così surreale da apparire materiale per un involontario meme, e che non veicolava nessun senso di appartenenza nazionale, quanto il desiderio di farsi ricordare come un uomo pronto a scendere in campo al fianco della Russia, anche se si dubita che lo abbia fatto veramente, un uomo che si adorna di tutti i paramenti militari, e vuole urlarlo al mondo, mentre la t-shirt di Zelensky, nella sua assoluta e studiata semplicità, appariva come un accessorio che il leader ucraino ha scelto a caso, mentre è troppo occupato ad impegnarsi di contrastare l’invasore nel suo paese.
L’abbigliamento di Kadyrov ricorda in questo quello dell’oligarca del Cremlino, sul cui guardaroba sono stati spesi fiumi di inchiostro: già nel 2014 la Bbc scriveva dell’«Alpha male apparel» di Vladimir Putin, sostenendo come abbia coltivato negli anni quest’immagine da uomo forte. Nel tempo libero, Putin va a caccia, a pesca, a petto nudo o con pantaloni cargo, anche se i capi che preferisce sono ovviamente quelli più formali: completi gessati dalle spalle importanti, che trasudano una concezione di eleganza rimasta agli Anni ‘80, la stessa prediletta da Donald Trump, e una collezione di orologi dal valore che supera quello del suo salario annuale.
Su questo argomento c’è un report del Moscow Times del 2012 che stimava il valore della sua collezione di cronografi a 22 milioni di rubli, all’epoca 682 mila dollari, cioè comunque sei volte il suo salario annuale, che nel 2012 era a 3,6 milioni di rubli, cioè 110 mila dollari. Per fare un esempio, il Lange & Söhne Tourbograph con il quale nel giugno 2012 stringeva la mano alla Merkel, costava 462 mila dollari. Coerentemente con la mitologia del leader eclettico ma generoso, si racconta di come a Putin piaccia regalare questi pezzi ai suoi cittadini, una volta stancatosene, come scriveva sempre il Moscow Times, parlando del figlio di un pastore in Siberia che si era ritrovato a gestire il suo gregge con un Blancpain da 10mila dollari al polso.
Per parlare col Paese, a marzo, durante la celebrazione dell’annessione della Crimea, Putin ha indossato un parka di Loro Piana da 12 mila dollari, di una taglia evidentemente più grande della sua, per nascondere il giubbotto anti-proiettile che indossava sotto, insieme a un maglione a collo alto in cashmere di Kiton: un outfit che ha imbarazzato Pier Luigi Loro Piana – oggi non più proprietario del brand, che è del conglomerato francese LVMH -, portandolo a specificare il suo dissenso verso l’invasione in Ucraina: una scelta, quella di Putin, che trasudava benessere, anche di fronte a un popolo che sta costringendo ad immani sforzi economici per sostenere l’invasione. Un Golia tracotante, di fronte ad un Davide dotato di fionda e di una t-shirt verde: ed è facile così capire quale sia il leader che, tra i due – a prescindere dalla reale situazione geopolitica – è più capace, con gli abiti, di mettersi dalla parte giusta della storia.