C’è un caro estinto nel nostro universo sonoro quotidiano. È la parola “cioè”. Erano gli scellerati (in tanti sensi) anni di piombo, quando furoreggiava con la sua corte di “a monte”, “a valle”, “nella misura in cui”. Tempi andati. Una prece.
In compenso adesso c’è “tipo”. C’era già prima di adesso, beninteso – quasi cinquant’anni fa, per esempio, Il poeta e il contadino Cochi e Renato, intonando A me mi piace il mare dissertavano di «tutta una roba buttata giù per terra… tipo farina, però essa è sabbia». Però adesso questo “tipo” dilaga: è raro poter seguire dieci minuti di conversazione informale, esposizione di fatti, descrizione di ambienti o oggetti, senza essere trafitti dallo strisciante bisillabo. «Ci vorrebbe qualcosa tipo un biadesivo», «qualcuno tipo un elettricista», «potrebbe essere tipo un’edicola», «mi piacerebbe andare tipo in un’isola greca», «eravamo finiti tipo in un deserto», «ci vediamo tipo in piazza», «devo avergli detto tipo “ma sei scemo?” », «avrò letto tipo venti pagine», «è tipo un’autofiction», «era tipo un grosso topo», «era tipo mezzanotte», «un dolore tipo colica», «mi hanno applicato una tariffa tipo all’estero»… “Tipo” può stare anche da solo, in uno scambio di battute, come richiesta di chiarimento: «Avrei voglia di qualcosa di buono” – “Tipo?”.
Insomma una parola passepartout, buona per tutti gli usi. Che di volta in volta può tenere il posto di “come”, “qualcosa come”, “per esempio”, “all’incirca”, “quasi”, “simile a”, “una specie di”, “sarebbe a dire?”, “cioè?”. Tipo un avverbio, con una funzione che varia, sfumando, tra il modale, l’esplicativo-esemplificativo, l’approssimativo, l’attenuativo, l’interrogativo. Una parola, si direbbe, da slang (non più soltanto) giovanile. Eppure ha una solida, seppure inavvertita, matrice classica. Proviene infatti direttamente dal latino typus, che indicava una figura a bassorilievo, e indirettamente dal greco týpos che aveva come significato base quello di impronta – il verbo corrispondente, týptō, esprimendo l’atto di battere, colpire, e quindi lasciare il segno.
Nella nostra lingua il significato originario si conserva in numismatica, «figurazione incisa nel conio e impressa sul tondino o disco della moneta, al dritto e al rovescio» (vocabolario Treccani) e nell’arte della stampa «(per lo più al plurale), ciascuno dei caratteri mobili» (ivi). A questo però tutti i dizionari fanno seguire un amplissimo ventaglio di definizioni, con una serie di smottamenti semantici che a partire da «modello, esemplare, campione», e passando per «forma esemplare a cui, per avere caratteri comuni, si possono ricondurre i singoli con le loro varietà», arrivano fino a «rappresentazione artistica convenzionale di un carattere o un personaggio», «persona originale, singolare o bizzarra» (citazioni dal vocabolario Zingarelli) e alle specifiche accezioni nei campi della biologia, della zoologia, della botanica, della logica, della giurisprudenza, perfino dell’esegesi biblica. A cui vanno aggiunti gli usi famigliari, dove “un tipo” può essere una persona non meglio definita (come a dire “un tizio” o “un tale”) e “il mio tipo” o “la mia tipa” è un modo – tra il complice e l’ironico – per indicare la persona con cui si intrattiene un rapporto amoroso. E proprio nell’ambito famigliare e informale si è diffusa l’espressione “sul tipo di”, per suggerire somiglianza o analogia, che nella sua formulazione ellittica, e nella concomitante espansione semantica, ha originato il “tipo” polivalente da cui siano partiti.
Indubbiamente un “bel tipo”: vorace, invadente, avido di spazi. Ma lo spazio lasciato vacante da “cioè” non è tutto suo, deve spartirselo con un’altra paroletta magica che da un po’ di tempo ha sensibilmente modificato il suo raggio d’azione: l’interiezione conativa “dai”. La funzione conativa è stata definita dal linguista russo Roman Jakobson come quella con cui chi emette un messaggio si propone di indurre il destinatario a un certo comportamento o atteggiamento: implica pertanto una relazione intersoggettiva. Senonché, nell’uso attuale ormai prevalente, emittente e destinatario tendono a coincidere, perché il “dai” è sempre più spesso autoriferito, in una sorta di sdoppiamento interno al soggetto che parlando con un interlocutore, in genere rispondendo alla domanda di un intervistatore, pacatamente intercala l’esortazione-incoraggiamento verso a sé stesso.
Il calciatore operato ai legamenti che dovrà stare fermo sei mesi: «Sì, certo, il morale adesso non è al top, però, dai, i medici assicurano che recupero al cento per cento». Il pilota di F1 arrivato sul podio: «Davvero, a un certo punto ho pensato di non farcela… invece, dai, è andato tutto bene». Sono spesso gli sportivi a fare ricorso all’autoconazione. Ma anche cantanti, attori, artisti, creativi vari interpellati sul loro lavoro, e più diffusamente tutti coloro che sono alle prese con qualche problema o impegnati in una piccola o grande impresa. «Ho l’esame tra cinque giorni e non ho ancora aperto un libro… però, dai, adesso mi chiudo in casa e mi metto sotto». «E come vuoi che stia? Dopo due anni che eravamo insieme mi ha piantata perché sono andata una volta con un altro, ma ti pare… sto di merda, sto. Vabbè, dai, poi mi passa». Soltanto un contagio linguistico, o l’indizio di una deriva egotista che chissà dove potrà portare?
P.S. C’era una volta l’attimino (una prece anche per lui), ora c’è il nanosecondo. «Gli ho chiesto se almeno potevamo ancora vederci, tipo per restare amici… Niente da fare. Vabbè, dai, mi sono detta, allora l’ho chiamato: “Senti, ti rubo solo un nanosecondo…”».