Il trend del settore olivicolo in Europa è in discesa, le quantità stanno progressivamente diminuendo e ciò è male proprio mentre i consumi mondiali di Evo, l’olio extra vergine di oliva, sono in crescita ovunque, specialmente Asia, Australia, Brasile e, in Europa, in Germania, Francia e Benelux.
L’allarme è stato lanciato nel corso della Settimana Internazionale dell’olio Evo organizzato a Roma tra il 12 e il 15 settembre scorsi da Unaprol, l’associazione di produttori di olio che fa capo alla Coldiretti, dal rappresentante della Dg Agricoltura e sviluppo rurale della Ue, Koen Dillen.
I produttori europei, che significa Spagna, Italia, Grecia e Portogallo – ha spiegato – devono fare di più per intercettare questa crescita di domanda. Pena la marginalizzazione delle produzioni europee. Anche perché dagli Stati Uniti, all’Australia, al Sud America la produzione olivicola inizia a crescere. E i Paesi del Nord Africa hanno già tassi di crescita a doppia cifra.
Secondo Dillen, l’Ue ha messo a disposizione 40 miliardi di euro per sostenere nuovi investimenti in agricoltura per renderla più sostenibile e in grado di contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Ma i singoli mercati devono fare la loro. Poi, chi sta peggio è proprio l’Italia che ha prezzi medi dell’Evo superiori agli altri produttori, ossia Spagna, Grecia, Portogallo e Francia.
Ma è davvero questa la strada da percorrere: abbassare i prezzi? La risposta è no. O meglio, dipende. Se si vuole fare concorrenza alla grande olivicoltura intensiva forse sì, ma è comunque tutto da vedere e magari la risposta finale può essere – e probabilmente sarà, del tutto opposta. Per i piccoli produttori dell’Evo di alta qualità è fin da subito un tondo No.
Il “trucco” è nei numeri, che sono grandi medie. Il professor Adinolfi, dell’università di Bologna, ha infatti mostrato un grafico in cui vengono evidenziati anche i prezzi minimi e massimi. I due olii più cari al mondo sono un greco e un giapponese. Di italiani neanche l’ombra. Anzi, le statistiche dicono che in Italia, unico produttore mediterraneo, gli ettari coltivati sono in calo. Dipenderà anche dal fatto che il 75% del’Evo italiano viene distribuito attraverso la Gdo? E lì vale solo la legge del prezzo più basso.
Che fare allora? La risposta è puntare su qualità, innovazione e trasparenza. Emerge che in Italia non si lavora abbastanza per far capire che l’Evo italiano, specie quello delle Dop e Igp, non è la stessa cosa di un “Evo Europeo” o di un “Evo Italiano” perché c’è dentro qualsiasi olio che sia stato prodotto rispettivamente in Europa e in Italia.
Così non si valorizzano le produzioni locali, che significano non un vago campanilismo ma che questi sono prodotti di filiera corta dalla produzione alla bottiglia. E che la presenza di cultivar definiti e caratteristici, oltre che la qualità della coltivazione e della molitura, danno origine a un Evo che ha, anzi, che deve avere per forza, qualità organolettiche superiori. E qui entrano in ballo innovazione e trasparenza.
Il presidente di Unaprol, David Granieri, ha detto che bisogna impegnarsi per ottenere di mettere in etichetta elementi di informazione al consumatore che permettano di orientare le scelte di acquisto. E bisogna far presto perché, con le previsioni di una campagna 2022 più scarsa ci saranno effetti negativi. In particolare la Spagna dovrebbe produrre tra il 30 e il 40% in meno, ma ne approfitterà per mettere sul mercato centinaia di migliaia di tonnellate di scorte di olio vecchio, di bassa qualità e farà scendere ancora di più i prezzi.
Nel mondo, ha spiegato Granieri, la vendita di Evo di qualità è cresciuta del 25%, mentre in Italia è calata dell’8%, in quantità. Anche se per fortuna a valore, il livello è rimasto lo stesso dell’anno prima. Segno che i nostri prezzi “più alti” iniziano a funzionare.
Attenzione, però: non abbiamo venduto meno perché abbiamo alzato i prezzi ma perché mentre perdiamo acquirenti nelle fasce basse di consumo, e va bene così, non ne acquistiamo abbastanza velocemente in quelle più alte. È qui che bisogna lavorare. Ha detto Granieri: «È assurdo che negli Usa esista l’olio “farmaco” e in Ue e in Italia no. Eppure siamo noi quelli che potrebbero essere i più qualificati a crescere in questo nuovo mercato».
E qui entrano in ballo le due nutrizioniste intervenute, Sara Farnetti, specialista di Nutrizione funzionale medica, e Laura Di Renzo, direttore della Scuola di Specializzazione in Scienza della Nutrizione a Roma II – Tor Vergata.
Entrambe hanno detto, in sostanza, che l’Evo è nutraceutico. Che bisogna friggere con l’Evo perché la sua quota di fumo è a 200 gradi e le patatine si friggono a 170, quindi al di sotto, ed è quindi più sano degli olii di semi. Che l’uso continuato di Evo previene diabete, alzheimer e cancro, obesità e colesterolo; perché sostiene e sviluppa il macrobiota (l’ecosistema del nostro intestino) e aiuta a contrastare le “sindromi metaboliche” che sono alla base di tutte quelle malattie.
Bisogna quindi innescare una rivoluzione culturale che riguardi in primo luogo le abitudini alimentari perché se altre condizioni di vita hanno portato all’allungamento dell’età media, ora bisogna far sì che questi anni in più siano sani. La parola d’ordine è “longevità sana”.
Ma non è un Evo qualsiasi che può fare tutto ciò, ma solo l’Evo di qualità. Che deve farsi strada anche in un mercato nuovo, quello degli integratori alimentari. E l’Evo è un integratore alimentare naturale.
Ma come si fa? Lo spiega Laura di Rienzo: «Ci sono tre marcatori di qualità che individuano l’Evo portatore di queste caratteristiche salutari. Il più importante di questi è l’oleocantale che ha qualità antiinfiammatorie pari a quelle dell’ibuprofene e che è responsabile del “morso alla gola” di quando si ingeriscono alcune qualità di olio. Ha infine anche effetti contro l’obesità».
Secondo Di Renzo queste composizioni polifenoliche dell’Evo possono essere messe in etichetta anche secondo l’Ue e supererebbero così tutti i limiti di semafori e classificazioni europee che oggi ci penalizzano sui molti mercati esteri. Ma è chiaro che non tutti gli Evo possono aspirare a questo. Quelli locali, con qualità e cultivar ben regolati, controllati e sottoposti a verifiche però sì.
Da ultima ha parlato Beatrice Ughi, un’italiana che vive a new York (ex revisore contabile) che ha fondato e dirige il sito Gustiamo.com, con cui importa e distribuisce negli Usa prodotti di eccellenza del made in Italy alimentare. Andate a visitare il sito e guardate quanto costa l’olio che vende (e giura che lo vende, anche a 40 dollari per una bottiglia da mezzo litro).
In conclusione: è emerso che i produttori italiani non sono a conoscenza di quale tesoro abbiano per le mani.
Devono però imparare a conoscere bene le qualità del loro prodotto, e poi imparare a spiegarlo ai consumatori. Devono fare attività di formazione alimentare e culturale sull’uso dell’olio Evo. Devono trovare il modo di mettere in etichetta informazioni che non si limitino solo al marchio e al luogo. Ma, per esempio, dire in etichetta che cultivar ci sono: è così che si crea la differenziazione rispetto ai concorrenti e si promuove al tempo stesso il territorio.
È il rovesciamento delle linee di marketing usate finora. Per esempio, non si caratterizza un olio perché è una Dop umbra, per dirne una: tanto, il 90% dei consumatori mondiali sa cos’è l’Italia ma faticherebbe a trovarla in una carta geografica, figurarsi con l’Umbria). Ma è l’Umbria che si caratterizza grazie al prodotto: è il territorio dove cresce e si produce quest’olio di qualità altissima.