Canne quasi nessuna: non so aspirare, inizio a tossire che sembra stia per sputare un polmone. Sì forse un paio di tiri di coca in gioventù, ma giusto perché pareva brutto dire di no. Gli aghi mi fanno impressione, gli acidi mi fanno paura: sono arrivata a quasi cinquant’anni senza praticamente mai drogarmi.
Poi, ieri, il crollo. Non l’ho detto a nessuno, non ho svelato la mia debolezza ad amici o parenti che potessero aiutarmi, convincermi a desistere. Anzi: ho spento il telefono. Ho spento il telefono, e sono andata su Google a cercare la trama d’uno sceneggiato fiammingo.
Ricordo perfettamente l’ultima volta che ero stata così. Quella volta era colpa di Sky. Avevano – quegli stronzi, diciamolo, quegli spacciatori fuori da scuola, figure che avevo fino ad allora creduto leggendarie – mandato ai possibili recensori cinque puntate di The Undoing. Cinque puntate d’una serie in cui non si sa chi sia l’assassino fino alla sesta. Due mesi, avevo dovuto aspettare, per la sesta, dopo aver visto le prime cinque in una notte.
Quella volta non ero potuta andare in cerca di spacciatori nei quartieri malfamati, giacché The Undoing non era andata in onda neppure in America, e nessuno sapeva ancora chi fosse l’assassino. Ed ero anche più allenata: avevo una certa consuetudine coi teleromanzi, l’attesa mi si confaceva meglio di ora; due anni fanno tanto, per il crollo della pazienza e delle tette.
Con Bad Sisters, il mio zoo di Berlino, è andata peggio, peggissimo. Intanto non sono più abituata: io, fondamentalmente, sono due anni che non aspetto niente. Due anni che non mi appassionavo a uno sceneggiato: dev’essere così che si sentono quelle che dopo vent’anni divorziano e si ritrovano sul mercato delle relazioni, non hai più la muscolatura, non ti ricordi più come funzionava.
La curva della disabitudine è andata così: prime due puntate, bello, ma sapete che questa nuova serie di Apple non è male per niente, tutte le mie amiche si mettono a guardarla, e io me ne dimentico. Intanto mi si complicano le giornate, anche se volessi non ho tempo di vederla, finché finisco un lavoro e mi rendo conto che ho ancora sette puntate da vedere.
Già dalle prime due avevo capito l’andazzo. La prima comincia col cadavere dell’odioso marito di una delle cinque sorelle. Il marito è talmente una schifezza d’essere umano che lo vuoi morto più di quanto ce lo vogliano loro (io vorrei abbastanza morta anche la moglie succube, ma dev’essere perché non sono una vera femminista). S’intuisce che ogni puntata, o giù di lì, ci farà vedere in flashback uno dei tentativi che le quattro hanno fatto d’ammazzare il cognato, fallendo.
Si capisce che fino alla fine non si saprà com’è andata: esattamente com’era costruita l’attesa in Big Little Lies e The Undoing. La me di due anni fa, di più pronta muscolatura rispetto a queste trappole, avrebbe saputo cosa fare.
Ci sono in streaming nove puntate, aspetta che esca la decima venerdì prossimo e guardale tutte assieme, senza dover aspettare il finale. La me del 2022 è come quelli che non si facevano per mesi e poi sbagliavano la dose e non erano più abituati e morivano. La me del 2022 si mette lì, il sabato, e dice ma sì, una puntata sola, se non le ho viste finora si vede che non mi prendeva poi tanto. La me del 2022 si dimentica di andare a cena perché si scopre che [omissis] custodisce da anni un cadavere, e il giorno dopo arriva a colazione (la me del 2022, no il cadavere) in ritardo perché deve finire la nona puntata.
La me del 2022 ne vuole ancora, e quindi cosa fa, questa derelitta? Ella sapeva che Bad Sisters era un rifacimento, e quindi ieri va alla ricerca delle recensioni dell’originale. L’internet tutto custodisce, l’internet mi dirà chi era l’assassina nella serie fiamminga. La gente nel deep web cerca il porno, io cerco le sinossi di serie fiamminghe. Con tutto quello che hanno speso per farmi studiare.
E quindi ora mancano tre giorni al finale e io so com’è morto lo stronzo (De Kloot, apprendo dall’internet, nell’originale fiammingo; the prick, nei dialoghi irlandesi, sceneggiati da Sharon Horgan, una delle più formidabili dialoghiste viventi: vorrei sapere cos’abbiamo a fare un fantastiliardo di piattaforme se poi in Italia non si può vedere Motherland).
Bad Sisters è, tra le altre cose, la dimostrazione che solo i produttori scarsi pensano che al pubblico servano personaggi con cui empatizzare: come in tutte le cose che valga la pena guardare, in Bad Sisters non ci sono personaggi positivi. Sono divisi tra quelli che vuoi morti tra atroci sofferenze (l’assicuratore con la moglie incinta e i debiti: se a ogni puntata non fantasticate di torturarlo, io e voi non abbiamo niente da dirci), e quelli che dici «vabbè, ma è proprio patetico, poverino».
Il che peraltro forse significa che hanno ragione i produttori di cui sopra: in fondo è più facile immedesimarsi in dei disgraziati deboli ed egoisti e pure un po’ sfigati, che in Julia Roberts e George Clooney.
Adesso non mi resta che sperare che la Horgan abbia cambiato il finale: quello fiammingo che ho letto è deludentissimo (come lo erano stati quello di The Undoing e quello di Big Little Lies: lo scaldamutandismo dei thriller contemporanei è insopportabile, promettono meraviglie e poi hanno soluzioni banalissime, dove sono gli Assassinio sull’Orient-Express, dove).
E poi, dopo venerdì, che ne sarà di me? Persino della meschina stronzaggine di The Prick, sentirò la mancanza, persino della vocazione a fare da vittima di sua moglie, persino della sigla. La sigla, Bad Sisters aveva (ne parlo già al passato per abituarmi) la prima sigla bella nella storia dei teleromanzi. E a un certo punto si scopre anche che quella che sembra solo una trovatina estetica è invece un pezzo di trama, ma non vi svelerò quale perché, quando vi pentirete d’aver cominciato a drogarvi, non voglio che diate la colpa a me.