Il Mezzogiorno pone al nuovo governo una domanda economica e una politica: l’una è emersa con prepotenza il 25 settembre, con un risultato elettorale che fotografa una polarizzazione che forse non è mai stata così netta. La questione economica è, invece, di lunga data: risale all’alba dell’Unità d’Italia il tentativo di perseguire una convergenza tra il Nord e il Sud del Paese.
L’unica cosa che possiamo dire degli sforzi profusi, e dei miliardi spesi, in tale tentativo è che essi non hanno prodotto risultati. Ed è anche questo senso di frustrazione che alimenta le spinte centripete a entrambi gli estremi della Penisola.
Il declino economico dell’Italia in generale, e del Mezzogiorno in particolare, e la divergente traiettoria delle regioni diventa particolarmente pressante in un momento in cui le condizioni macroeconomiche internazionali volgono al brutto. Tra crisi energetica, ritorno dell’inflazione e ristrettezze del bilancio pubblico non è più pensabile di oliare la coesione sociale attraverso la spesa pubblica. Che fare, allora?
La nuova premier dovrebbe prendere in considerazione tre elementi di una strategia diversa e innovativa per lo sviluppo del Mezzogiorno. Il primo, ovviamente, consiste nella presa d’atto del fallimento delle politiche seguite fin qui: se non hanno funzionato per un secolo e mezzo, è improbabile che inizino a dare risultati nel prossimo quinquennio. L’Istituto Bruno Leoni ne ha dato conto in un libro, “Morire di aiuti”, che è un’autentica carrellata di tentativi magari generosi ma, a conti fatti, inefficaci.
Questo ci porta al secondo elemento: per dire se una politica funziona oppure no, bisogna anzitutto porre le premesse per una sistematica misurazione dei suoi effetti. È solo osservando i risultati, e comprendendone le ragioni, che si può individuare una strada alternativa. Questo sforzo finora è stato perseguito in modo frammentario e, perlopiù, volontario a opera di soggetti esterni.
È importante che le amministrazioni centrali dello Stato varino un grande progetto di trasparenza, finalizzato sia all’auto-valutazione sia alla valutazione da parte di terzi, raccogliendo e rendendo pubblici i dati sulle politiche economiche. E tale sforzo di produzione di dati e valutazione non può che partire dalle politiche per il Mezzogiorno. L’attuale Agenzia per la coesione andrebbe completamente ripensata, rafforzandone il ruolo di controllo e monitoraggio e riducendone quello di portafoglio di risorse per il Sud, oggi preponderante.
Infine, se l’intervento pubblico top-down non ha funzionato, forse è il momento di interrogarsi su come stimolare una crescita bottom-up.
Il modello di riferimento non dovrebbe più essere quello della Cassa per il Mezzogiorno, specie nella sua degenerazione clientelare che ancora suscita ammirazione tra le élite politiche del sud e industriali del nord, che ne hanno indebitamente beneficiato. Dovrebbe, semmai, essere quello delle Zone economiche speciali: non tanto per i benefici fiscali che garantiscono – che non sono generalizzabili – ma perché consentono di costruire un ambiente a burocrazia ridotta.
Lo statalismo è la zavorra, non la salvezza, del Mezzogiorno. Comprenderlo è necessario. Agire coerentemente sarebbe rivoluzionario.