Così come per tanti altre dinamiche economiche, anche quello della delocalizzazione è considerato da alcuni un fenomeno emergenziale, nonostante non si tratti affatto di qualcosa di nuovo
Il timore di vedere parte del tessuto produttivo e migliaia di posti di lavoro dislocati all’estero è diffuso in modo trasversale tra le forze politiche. Non è un caso che anche un governo di unità nazionale, come quello Draghi, abbia dato un giro di vite per limitare il fenomeno. Nel decreto Aiuti Ter sono state previste severe sanzioni (fino al 500% del contributo di licenziamento per ogni lavoratore in esubero) in caso di assenza di motivi di crisi e di mancata presentazione di un piano per una transizione morbida e una ricollocazione dei dipendenti coinvolti.
Ma questo problema quanto riguarda l’Italia? Istat ed Eurostat certificano che nel periodo più recente esaminato, tra 2018 e il 2020, includendo quindi anche l’anno peggiore della pandemia, hanno delocalizzato 594 aziende italiane con più di 50 addetti.
Questo non vuol dire che abbiano chiuso i battenti e si siano spostate all’estero, ma che hanno trasferito in altri Paesi alcune funzioni, non necessariamente la produzione, ma per esempio la divisione amministrative, la ricerca e sviluppo o la distribuzione e la logistica.
Nella ricerca Eurostat non sono presenti tutti i Paesi europei, ma tra quelli esaminati è la Germania quella che vede più delocalizzazioni: 1.028, seguita dal nostro Paese e poi da Paesi Bassi, Irlanda e Danimarca. Se però il dato viene confrontato con quello del numero di imprese medie e grandi (con più di 50 addetti, appunto) non finanziarie, appare chiaro come in realtà non siamo di fronte a un fenomeno emergenziale.
Ad essere stato interessato da una qualche forma di trasferimento all’estero di funzioni produttive è stato solo il 2,4% delle realtà italiane di queste dimensioni. È un dato più alto di quello tedesco (1,4%), ma inferiore a quello che interessa Paesi tra l’altro molto più dinamici del nostro, come Irlanda (6,7%), Finlandia (6,7%), Danimarca (6,5%) e Norvegia (5,8%).
Dove portano i propri affari queste imprese? A quanto pare la maggioranza in altri Paesi UE. Nel caso italiano 409 aziende hanno scelto tale destinazione, mentre 117 altre realtà europee non appartenenti all’Unione. Relativamente poche hanno portato più lontano le funzioni produttive, sicuramente meno di quanto abbiano fatto le imprese tedesche, che in questo senso appaiono ben più globalizzate.
Nel caso di queste ultime, più di un’azienda delocalizzata su due è andata in Cina, in India, in Usa o altrove. Negli altri Paesi è più seguito il modello italiano di quello tedesco, con una naturale propensione irlandese allo spostamento nel Regno Unito. Per quanto riguarda l’Italia non sono le funzioni produttive, come si potrebbe pensare, a essere trasferite più spesso all’estero. Infatti è successo solo a 186 aziende, il 31,3% del totale, mentre in Germania a 624, più della metà.
Al contrario nel nostro Paese si usa di più spostare l’amministrazione e la gestione manageriale. Lo hanno fatto in 256, il 43,1% delle imprese delocalizzate, contro il 32,6% di quelle tedesche e il 38,8% di quelle olandesi. Per queste ultime è più frequente la delocalizzazione dell’ICT, la ricerca e sviluppo o il marketing. Mentre solo 45 medie e grandi aziende italiane hanno trasferito la ricerca e sviluppo, probabilmente a causa della limitata presenza di tali comparti nel nostro Paese.
Un dato interessante per le imprese italiane è il fatto che la gestione manageriale e/o amministrativa viene delocalizzata molto spesso nell’Ue, mentre le aziende tedesche portano tali funzioni al di fuori dell’Unione più di frequente, preferendo fare rimanere al suo interno la produzione.
Vi è un dato che però accomuna Italia e Germania, ed è la preponderanza di aziende manifatturiere rispetto a quelle dei servizi tra le realtà che vengono spostate all’estero, o di cui viene trasferito qualche comparto. Sono 357 contro 238 nel nostro caso, e 631 contro 397 in quello della Germania. Altrove, per esempio nei Paesi Bassi, in Irlanda, in Finlandia, in Ungheria, prevalgono i servizi.
Quanti perdono il lavoro quando vi è una delocalizzazione? E chi lo perde? Sotto questo aspetto tra il 2018 e il 2020 la situazione italiana appare molto meno tragica di quello che potrebbe apparire ascoltando i media. Sono state, secondo Eurostat, circa 4.600 le posizioni lavorative che hanno subito il trasferimento di tutte o alcune funzioni aziendali fuori dall’Italia. Il nostro Paese è solo quinto in valore assoluto in questa classifica, e molto più indietro in termini relativi rispetto agli altri Paesi Ue. Parliamo, infatti, del 0,22% di tutti coloro che lavorano in realtà con più di 50 addetti, una cifra inferiore a quelle di Irlanda, Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi.
A questo proposito vi è un elemento importante da sottolineare: in Italia la maggioranza di quanti perdono il proprio impiego, il 69,5%, è definito low skilled, a bassa specializzazione. Anche in Germania vi è una maggioranza di questo tipo, mentre è minore il gap laddove a delocalizzare sono soprattutto aziende dei servizi, quindi nel caso di quelle olandesi, danesi, irlandesi. In un caso, quello dell’Ungheria, i più svantaggiati sono proprio gli high skilled.
In sostanza siamo davanti a un fenomeno che appare doloroso, e più doloroso in Italia che altrove, perché a essere colpiti sono soprattutto quanti faranno più fatica a ricollocarsi.
Una dinamica simile la si è vista per quanto riguarda l’emigrazione. Anche in quel caso il numero di quanti lasciano il nostro Paese appare preoccupante, nonostante non sia più elevato che in Germania, Francia o Regno Unito, perché non viene sostituito da un flusso di capitale umano specializzato in ingresso.
Lo stesso accade con le imprese. A fronte del trasferimento all’estero di aziende irlandesi od olandesi, o meglio di branch locali di multinazionali globali, ve ne sono altre che prendono il loro posto. Si tratta di un turnover vivace, che riguarda più che da noi imprese straniere, personale specializzato, e che non a caso interessa quei Paesi che sono sempre in testa per attrattiva di investimenti internazionali.
È perfettamente comprensibile che una multinazionale accorpi una funzione, per esempio il marketing, in un solo luogo, mentre un’altra porti nel Paese da cui la prima se n’è andata la divisione ricerca e sviluppo, assumendo professionisti. Ed è più frequente, grazie ai minori costi, che questo accada nei servizi.
Alla fine siamo sempre allo stesso punto, le delocalizzazioni, come l’emigrazione dei cervelli, non sono un problema in sé, e i numeri lo dimostrano. Lo diventano in quanto non compensati da investimenti di grandi imprese che portino in Italia produzioni o funzioni aziendali provenienti da altre aree o completamente nuove.
Più delle leggi che dissuadono la fuga delle imprese, probabilmente il nostro sistema economico beneficerebbe di politiche che rendano attrattivo il capitale umano e il sistema Paese. Ma naturalmente sono molto più difficili e forse impopolari da realizzare.