Inside CopenaghenLe elezioni danesi non saranno (stranamente) decise dall’immigrazione

I cittadini andranno al voto sette mesi prima del previsto, a causa di uno scandalo legato alla strage di visoni del 2020 che rischiava di far cadere il governo. La questione migratoria, centrale negli ultimi anni, è oggi meno importante rispetto a sanità e ambiente

Danimarca elezioni
LaPresse

Sette mesi prima di quanto previsto, il popolo della Danimarca il primo novembre è chiamato alle urne per eleggere i 179 membri del Parlamento nazionale. La prima ministra Mette Frederiksen aveva infatti annunciato elezioni anticipate a inizio ottobre, dopo la minaccia di sfiducia all’attuale governo da parte di uno dei partiti che compongono la maggioranza.

Frederiksen, membro del partito Social-Democratico, ha visto il suo consenso crollare dopo che una commissione parlamentare ha definito illegale l’uccisione, nel 2020, di circa quindici milioni di visoni per prevenire la trasmissione del Covid-19. La prima ministra ha evitato l’impeachment cavandosela con una semplice reprimenda da parte della commissione, ma è stata costretta a indire nuove elezioni dalla minaccia, da parte del partito Socio-Liberale – suo alleato di centro-sinistra – di proporre un voto di fiducia.

Le elezioni del 2019, che avevano visto il partito di Frederiksen trionfare con quasi il ventisei per cento, erano state decise dal tema dell’immigrazione. In Danimarca la tolleranza media per i fenomeni migratori è piuttosto bassa, più o meno in tutto l’arco politico. La retorica anti-immigrazionista era stata alimentata proprio dai socialdemocratici per provare a spodestare i conservatori al potere, che in effetti passarono dal ventuno per cento del 2015 all’8,6 del 2019.

La linea dura venne rispettata, portando il governo ad approvare politiche radicali come il cosiddetto «ghetto deal», una serie di misure per contrastare la presenza di persone di cultura «non occidentale» da determinati quartieri, e a mantenere una legge dei conservatori che consente alla polizia di confiscare denaro e oggetti di valore ai rifugiati per pagare la loro permanenza in Danimarca. Gli ucraini sono stati esentati da tali provvedimenti, fomentando le accuse di razzismo dirette all’esecutivo.

Uno dei provvedimenti forse più tristemente famosi è il piano per esternalizzare le richieste di asilo in Rwanda, che vedrebbe i profughi venire di fatto deportati, che tutte le principali forze politiche in corsa alle elezioni approvano. La ex ministra dell’immigrazione Inger Støjberg, inoltre, fu condannata a 60 giorni di prigione per aver ordinato, nel 2016, la separazione delle coppie di profughi nei centri per l’asilo se uno di essi avesse meno di 18 anni. Meno di un anno dopo, avendo scontato la sua pena, Støjberg ha fondato il partito di destra dei Democratici Danesi, che concorre alle elezioni di domani.

Non sembra, però, che le elezioni verranno decise dall’immigrazione. Anche perché, come visto, la linea politica sul tema è praticamente trasversale, in Parlamento come nell’opinione pubblica. Le priorità dei cittadini, in questo momento, vedono in testa la questione sanitaria: negli ospedali pubblici mancano duemila quattrocento infermieri a causa delle condizioni lavorative generatesi durante e dopo la pandemia, mentre i chirurghi danesi hanno espresso in una lettera aperta il proprio timore di non essere in grado di operare i pazienti abbastanza velocemente.

Il ricorso della popolazione agli antidepressivi è a livelli altissimi, la percentuale di persone affette da tumori è la più alta del mondo e l’aspettativa di vita è inferiore a quella della Germania. Nelle preoccupazioni dei cittadini, la sanità è seguita a stretto giro dall’economia, dall’ambiente e dalla politica estera e di difesa. L’immigrazione è al quinto posto, indicata come problema principale da soltanto l’undici per cento della popolazione.

I sondaggi vedono i socialdemocratici in testa con il ventisei per cento, seguiti a distanza dai Liberali di Venstre (che significa «sinistra» nonostante il partito sia di destra) al tredici, che hanno comunque buone possibilità di governare con gli alleati. In grande crescita il nuovo partito dei Moderati, nato nel 2020, che fino a un mese fa godeva solo del 2,2 per cento e oggi è dato fra il nove e l’undici per cento: un risultato che gli garantirebbe ventuno seggi nella loro prima tornata elettorale.

Anche per i socialisti si prospetta un nove per cento, mentre il partito dei Democratici Danesi, guidato dalla già citata Støjberg, è dato all’otto. Crollano i conservatori, passati dal quindici per cento di settembre al sette odierno, risultato conteso con l’Alleanza Liberale e con quella Rosso-Verde.

In tutto sono quattordici i partiti in corsa alle elezioni di domani, suddivisi in due principali blocchi, sinistra e destra. Uno di questi, il Partito Sintetico, è addirittura guidato dall’intelligenza artificiale. È improbabile, come visto, che si assisterà al raggiungimento di una maggioranza assoluta da parte di una singola formazione politica.

Sarà necessario costruire alleanze, in quanto la maggior parte dei seggi è assegnata mediante sistema proporzionale, con soglia di sbarramento fissata al due per cento nazionale. Molte leggi danesi, comunque, solitamente passano con l’approvazione trasversale del Parlamento, che vede la stretta cooperazione tra le diverse parti politiche.

Le prime stime dei risultati elettorali dovrebbero arrivare poco dopo la chiusura dei seggi, domani sera. I risultati ufficiali, però, non si sapranno prima di un giorno o due. Da lì inizierà il percorso di esplorazione delle varie alleanze possibili per formare un governo, che potrebbe durare pochi giorni come qualche mese.

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