«L’Unione europea per molti decenni è stata un’oasi sicura per i giornalisti, ma purtroppo non è più così». Lo spiega Dunja Mijatović, bosniaca, commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa. In una sala al quinto piano dell’Europarlamento ci sono redattori che rappresentano testate da tutti i Ventisette Stati membri. Manca poco all’assegnazione del premio Daphne Caruana Galizia, va a un’inchiesta sulle influenze russe in Africa. Uscire dalla «bolla» in cui viviamo, come invita a fare Mijatović, significa andare oltre la commemorazione della reporter maltese e dei troppi suoi colleghi che continuano a venire uccisi solo per il mestiere che si sono scelti.
«La prima vittima di ogni guerra è la verità» esordisce la vicepresidente della commissione europea Věra Jourová. Non è una frase fatta con un conflitto in corso in Ucraina. Jourová ne parla nei termini di un «grandissimo stress test per le nostre democrazie», ricorda la battaglia controvento per opporsi alle grandi piattaforme quando abdicano all’imparzialità e in nome di una presunta neutralità lasciano proliferare tossine e fake news. «Sùbito dopo l’invasione, ho chiesto ai manager di Facebook e Google di scegliere da che parte stare».
Al seminario Safeguarding Media Freedom interviene anche una giornalista ucraina. Angelina Kariakina dirige un telegiornale della tv pubblica, la UA: PBC. «Vi parlo dalla periferia di Kyjiv. Sono appena uscita da un rifugio dove io e la mia redazione passiamo circa la metà della mia giornata, ma mi ritengo fortunata ad avere la possibilità di proseguire a lavorare nella mia città. I giornalisti sono tra gli obiettivi principali della guerra di Putin: sono morti trentadue colleghi, inclusi quelli stranieri».
Descrive la nuova quotidianità, fatta di redazioni e abitudini modificate. Vanno spostati i mobili, i canali televisivi devono allestire rifugi dentro i loro studi, per non dover interrompere le trasmissioni. Oppure, per girare un servizio in Donbas occorrono un generatore e scorte di gas: in pratica un camion intero, sono raddoppiati i costi per confezionare pochi minuti della scaletta di un’edizione. «E non parlo delle misure di sicurezza. Decine di torri della tv sono state colpite, è difficile per noi, ogni giorno non sapremo se continueremo a poter lavorare».
La copertura dei media occidentali, dopo il 24 febbraio, ha dovuto cambiare segno. Kariakina lo denuncia dalla sua prospettiva, anche professionale: troppo a lungo l’Ucraina è stata raccontata da Mosca, fisicamente, cioè con un corrispondente dalla capitale russa. In alcuni casi, è stato così anche nelle prime settimane di guerra. «Era una visione imperialista, ma i giornalisti dovrebbero lavorare sul campo e in tanti, infatti, poi sono venuti qui a vedere cosa stava accadendo, ma magari non sapevano cosa è successo nel 2014 e anche quello fa parte del contesto».
La propaganda uccide. Lo dice chiaramente Matthew Caruana Galizia, figlio di Daphne. Le calunnie su sua madre, dice, sono parte di ciò che ha condotto al suo brutale assassinio. «Il processo è il minimo, ma ancora mancano quelli coinvolti ai livelli più alti, perché non li abbiamo ancora identificati. Spero si arrivi alle condanne, sennò Malta rimarrà a un livello di impunità simile a quello della Russia. Sia il governo maltese sia le istituzioni europee devono imparare la lezione».
L’isola è un caso specifico, la corruzione su cui investigava Caruana Galizia era più ampia delle frontiere di un solo Paese europeo. «Non si possono mettere da parte le prove e non farci nulla – denuncia –. L’Ue si trova bloccata in una situazione simile a quella degli Stati Uniti prima della creazione dell’Fbi, quando la corruzione finiva con i confini degli Stati, e questo non permette di seguire i flussi di denaro». In una risoluzione, l’Europarlamento ha riconosciuto alcuni progressi nelle riforme di La Valletta, ma le ha anche giudicate insufficienti.
Con un videomessaggio Dmitry Muratov, storico direttore di Novaya Gazeta, propone di creare un fondo a sostegno della stampa in esilio, da intitolare ad Anna Politkovskaja. Aprono all’idea la vicepresidente dell’Europarlamento, Pina Picierno, e l’attuale direttore del giornale, Kirill Martynov. «Le autorità hanno costretto al silenzio i giornalisti quando si tratta di raccontare i veri crimini – dice Martynov –. Adesso lavoriamo dall’estero, abbiamo lasciato dietro di noi un Paese in declino, dove il lavoro del giornalista non è più possibile».
Ma l’indipendenza dei media arretra anche dentro il perimetro dell’Unione. È il caso dell’Ungheria. Il direttore di Telex, Szabolcs Dull, ricostruisce un capitolo della sua biografia. Era caporedattore del quotidiano online più visitato, Index. Quando viene licenziato per aver denunciato le pressioni politiche, tutta la redazione si dimette. Insieme fondano la nuova testata. «Quando qualcuno mi chiede se esiste la libertà di stampa in Ungheria, dico sempre che non è una domanda a cui si può dare una risposta secca, il mio esempio dimostra che viene violata e allo stesso tempo l’opposto».
I giornalisti non allineati sono considerati nemici da Viktor Orbán e dai suoi oligarchi. Non sono invitati alle conferenze, non vengono loro concesse interviste, sono attaccati. Dull racconta che la tv filogovernativa l’ha assediato sotto casa con le telecamere (intimidazioni a cui certi talk italiani ogni tanto si avvicinano pericolosamente). Va a finire che a Budapest «la narrativa russa è molto diffusa nella copertura della guerra».
Picierno cita Giancarlo Siani come archetipo di chi paga con il sangue la verità. Oggi le interferenze del Cremlino «nei nostri sistemi informativi sono diventate un pezzo importante di questo conflitto». Non va abbassata l’attenzione. «Il primo attacco allo stato di diritto e alla libertà di un Paese colpisce sempre la stampa libera». Anche la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, riconosce come «spesso in questa sede si parla della libertà di parola come se fosse qualcosa da dare per scontato». Non è così e le storie di questa pagina stanno lì a confermarlo.