«Con mia sorpresa, Sindrome 1933 ha avuto un lettore particolarmente appassionato. Continua a citarlo, come esempio di come siano pericolosi e populismi, e di come anche una democrazia consolidata possa sbandare per via elettorale. È Papa Francesco. La prima volta l’aveva menzionato ricevendo nell’ottobre 2020 il premier socialista spagnolo Pedro Sanchez. Mancavano poche settimane alle elezioni americane in cui, persa la Casa bianca nelle urne, Donald Trump avrebbe tentato di riprendersela con l’assalto al Congresso. Ha continuato imperterrito in diverse occasioni successive».
Chi scrive è Siegmund Ginzberg in un lungo articolo su Il Foglio dal titolo ’’La trappola del 1923’’ nel quale ricorda come le responsabilità dei partiti di allora, dai liberali ai socialisti massimalisti, consentirono, con la complicità della Corona e dei padroni del vapore, a Benito Mussolini di prendere il potere da posizioni di minoranza alla Camera dei Deputati. Poi – ecco la ’’trappola del 1923’’ – quegli stessi partiti non si opposero alla legge Acerbo che premiava in modo esagerato (due terzi dei seggi) la formazione che avesse ottenuto un quarto dei voti espressi.
Il paradosso fu che quella legge elettorale non scattò perché Mussolini – sia pure con i brogli e le violenze – ottenne dalle urne i due terzi dei suffragi.
Ginzberg è solito rievocare storie passate individuando dei percorsi, delle trame e delle azioni (o delle omissioni) che trovano riferimenti e similitudini con vicende dei nostri tempi. Così in ’’Sindrome 1933’’ (Feltrinelli) la puntuale descrizione degli eventi della resistibile ascesa di Adolf Hitler lasciava leggere tra le righe le preoccupazioni derivanti dall’esito delle elezioni politiche del 2018 e dalla maggioranza e del governo che ne erano derivati.
Ginzberg ha avuto l’intelligenza di non scrivere un saggio intitolato ’’Sindrome 1922’’, ma si vede chiaramente che la legge Acerbo è un pretesto e che nella trappola, in cui erano cadute le classi dirigenti, era stata scavata l’anno prima.
Come ricorda Ginzberg: «Siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo»: scriveva il leader socialista Filippo Turati alla sua compagna Anna Kuliscioff. La stessa constatazione potrebbe essere fatta anche oggi per quanto riguarda la vittoria del centrodestra a guida Giorgia Meloni. Ma non avrebbe senso chiamare in causa un neofascismo evocato tante volte a sproposito da non suscitare più alcun timore come se fosse il lupo della favola.
Confesso che se avessi le capacità e la cultura di Siegmund mi cimenterei (glielo anche suggerito) con un’altra sindrome: quella del 1939. Ha ragione Francesco Cundari: la guerra in Ucraina è come una spada di Brenno sul piatto delle possibili alleanze tra le opposizioni al governo di destra-centro.
A mio avviso c’è un aspetto più generale (da cui la sindrome 1939): l’Europa è in una condizione di belligeranza con la Federazione Russa da 24 febbraio scorso. È una strana guerra che per ora si combatte con altri mezzi. Anche nei primi mesi che precedettero la Seconda guerra mondiale si usò questa definizione, perché dopo l’aggressione nazista (e sovietica) della Polonia, il 1° settembre 1939 alla dichiarazione di guerra di Francia e Regno Unito alla Germania seguirono diversi mesi di silenzio delle armi, fino alla primavera inoltrata del 1940.
In Europa e in Italia non viene presa in considerazione l’ipotesi che nel conflitto in corso avvenga un salto di qualità. Lo stesso Putin ha dichiarato che la minaccia di usare delle bombe atomiche tattiche «non è un bluff». La Nato ha risposto tracciando delle linee rosse invalicabili da parte della Russia (anche se non è chiaro per ora quali sarebbero le gravi conseguenze annunciate da Joe Biden e dalla Alleanza atlantica).
Putin – con la guerra del gas – sta portando avanti un’offensiva che rischia di mettere in gravissima difficoltà il nostro sistema economico, tanto che non può non essere ritenuto equiparabile a un atto di ostilità.
Il governo italiano che sta per nascere, le Cancellerie europee hanno messo in conto la prospettiva di un aggravamento e di un allargamento del conflitto? Quando Putin afferma che la sua non è una guerra all’Ucraina, ma all’Occidente a nessuno viene in mente che dica sul serio? Mettiamo pure tutte le risorse disponibili sul caro bollette; ma nessuno pensa alla difesa e alla sicurezza nazionale?
L’interesse dell’Italia caro ai nuovi patrioti, la salvaguardia dei confini non passano anche dalla capacità di affrontare pericoli ben più gravi dello sbarco sulle nostre coste delle carrette del mare che vanno alla deriva nel Mediterraneo insieme agli incrociatori russi?
Poi nel giro di un paio di anni lo scenario internazionale potrebbe cambiare completamente. Quando Joe Biden dice ai suoi sostenitori «Avete visto che cosa è successo in Italia?», non si preoccupa di un possibile neo fascismo di casa nostra, ma di un fascismo che cova negli Stati Uniti, se il trumpismo dovesse riemergere.
L’8 novembre Biden rischia di perdere la maggioranza al Congresso come preludio di una sconfitta alle elezioni presidenziali. Così l’Europa si troverebbe schiacciata tra due fuochi: l’alleato americano che riaccende lo storico filone dell’isolazionismo e la Russia che ne pretende e ne ottiene la resa economica per strappare anche quella politica. A quel punto sulla valorosa Ucraina si proietterebbe l’ombra malefica dell’Afghanistan.