Il vino induce a pensare a filari di vigne battuti dal sole, a lente lavorazioni stagionali, alle vendemmie. Lo troviamo imbottigliato a tavola, versato nei nostri bicchieri al ristorante, lo ordiniamo all’aperitivo, chi di noi lo ama ne beve in grandi quantità. Ma chi di noi saprebbe dire come è composto il mondo che gli orbita intorno e quali sono i quesiti che oggi si pone chi ci lavora?
C’è chi lo produce e chi lo distribuisce, ma anche chi lo serve, intercettando direttamente domande, dubbi e preferenze. Di questi e altri temi discutono sommelier, enologi, esperti di viticoltura, chef, imprenditori agricoli, blogger, esperti di comunicazione, marketing, sostenibilità. Tutti giovanissimi, vivaci ereditieri del mestiere oppure neofiti che a lavorare per il vino e con il vino si sono trovati per passione. Oggi tentano di coniugare la tutela delle radici con una sostenibilità il più possibile autentica.
Anzitutto, quasi nessun consumatore conosce la differenza tra vigne vecchie e vigne giovani. È vero, come dicono in molti, che le vigne vecchie sono automaticamente più pregiate? Sì, dice Matteo Gerbi, enologo a Nizza Monferrato, ma è anche più dispendioso dal punto di vista economico, è più delicato, risentono del tempo, del caldo e del freddo, e questo influisce poi sulla qualità gustativa del prodotto finale. In una parola, è più rischioso. Lo sa bene, considerando che nel Monferrato ha una vigna di novantatre anni.
Come osserva giustamente Cristian Carlucci, sommelier, una vigna vecchia è come una persona anziana. Necessita di più cure, di più attenzioni, ma è solida, ha una sua storia, origini antichissime. Una vigna giovane può fiorire una sola annata, dare il meglio di sé, e poi smettere di funzionare. Essere dimenticata, rivelarsi un cattivo investimento.
Daniel Pfitscher, vignaiolo bolzanese, possiede una linea che si chiama “riserva”, la cui particella è nata nel 1978. Stefano Malchiodi, enologo e agronomo presso la Tenuta Mazzolino, si prende cura di ben 70 vigneti. «Per mantenere una vigna vecchia in buono stato», dice, «è necessario parlare di sostenibilità. Solo se il suolo è sano è ben nutrito, le radici profonde di una pianta anziana possono prosperare. Se si fertilizza il piede della vigna, ad esempio, le si impedisce di interagire con l’ambiente circostante. Tant’è che abbondano varietà spacciate».
Benedetta Molteni, ad appena ventotto anni, parla della sua vigna alla Tenuta del Castello di Morcote a Lugano che, per quanto vecchia, contiene un’enorme varietà di cloni francesi. Sperimentare, cambiare portainnesto, assistere alla reazione delle piante consiste nella variabilità del vigneto in sé. Significa spronarne la diversità. Lo conferma Gualberto Ricci Curbastro, imprenditore agricolo, trentun anni: «All’interno di un’azienda vinicola bisogna giocare con la differenza clonale. Oggi la standardizzazione aiuta. La varietà aiuta ad avere meno problemi di capacità e gestione economica. Se le varietà vanno perse, non bisogna sbatterci troppo la testa. Il vivaismo è legato alla produzione»
«Non si può chiedere a chi produce di fare ricerca», ribadisce Malchiodi. Senza contare che le vigne impattano dal punto di vista ambientale. «Se le aziende vinicole volessero essere sostenibili al cento per cento, dovrebbero smettere di produrre», spiega Arianna Biagini, trentunenne, referente della comunicazione e del comparto sostenibilità di Berlucchi Franciacorta. «Ciò che possiamo fare è portare l’attenzione del consumatore e creargli maggiore consapevolezza. Fornirgli strumenti».
Come il bilancio di sostenibilità, ad esempio. Ovvero, un elenco di azioni da parte dell’azienda che illustra all’acquirente cosa sta facendo e dove potrebbe migliorare. Secondo Biagini, la trasparenza nelle intenzioni di chi produce è un primo passo che porterebbe le nuove generazioni a stanare il fenomeno greenwashing. È d’accordo Federica Gandelli, sommelier: «Il consumatore medio è confuso. Al fine di aiutare e indirizzare il consumo potrebbero essere ripensate le etichette». Gabriele Galli, proprietario di un’enoteca online, ribatte che le etichette sui prodotti hanno un voluto effetto fumoso, perché alle spalle non presentano nessun processo sostenibile da decantare. Mentono, perché interpretano la sostenibilità come una leva per aumentare le proprie vendite.
Ma questo non è per forza un male, se spronasse il consumatore ad acquistare un vino più sostenibile di altri anche se ha un costo leggermente più alto. Significherebbe che la coscienza di chi compra è cambiata. «La sostenibilità è un tema inscindibile da quello sociale», conclude Corrado Casiraghi, restaurant manager di ROTEO, parte dell’hotel Musa, sul lago di Como. «Senza attenzione sui ritmi e sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, tutti i provvedimenti a favore della sostenibilità diventano una contraddizione».
Ribadendo ancora una volta il concetto già ampiamente diffuso e gridato a gran voce dagli ambientalisti di tutto il mondo: non esiste giustizia climatica senza giustizia sociale.