Lynchiano, al limite hopperiano. Con questi due aggettivi, desunti dal nome di un regista e di un pittore che in epoche diverse hanno descritto il volto dell’America, possiamo provare a definire l’estetica di uno dei più grandi fotografi contemporanei, che arriva da oggi in Italia dove si è visto poco anche se è molto apprezzato.
La nuova sede torinese di Gallerie d’Italia, il bellissimo museo di Intesa Sanpaolo il cui “core business” è incentrato sulla fotografia (nelle sale a fianco è stata inaugurata da poco l’antologica di Lisetta Carmi), presenta il lavoro di Gregory Crewdson, non in una mostra dal taglio antologico ma privilegiando alcune serie e in particolare un ultimo ciclo inedito che l’artista ha realizzato proprio su commissione per questa mostra.
Una scelta che di fatto ne costituisce il valore aggiunto: tutto è stato pensato e studiato da Crewdson medesimo, anche i commenti sonori che accompagnano le sue foto, da amante delle indie rock qual è. Hanno collaborato con lui Yo La Tengo, storica band alternative formatasi a metà anni ’80 nel New Jersey e per la quale Crewdson illustrò la cover dell’album And Then Nothing Turned Itself Inside Out, Jeff Tweedy, leader dei leggendari Wilco e James Murphy, fondatore e leader di LCD Sound System, insieme al polistrumentista Stuart Bogie.
Nelle sue immagini, considerate un caposaldo per la stage photography che si sviluppa a partire dagli anni ’80 risultando l’esatto contrario della nuova foto digitale e del suo rapporto immediato con la realtà, assistiamo ad atmosfere fumose e livide, scatti in cui si racconta la vita di provincia (ecco il rimando a David Lynch e a quanto derivato da Twin Peaks) e si esalta la tipicità di quel paesaggio che già Edward Hopper cantò nella pittura.
L’artifizio la spunta sempre sulla verità e infatti i personaggi appaiono come cristallizzati, congelati in pose antinaturalistiche dove a esplodere è il colore e l’occhio si perde nei mille dettagli di un’inquadratura prevalentemente in campo lungo. Le foto di Crewdson, almeno le più famose, sono un perfetto compendio dell’idealtipo americano: non so quanto consapevolmente ma il cinema contemporaneo, a cominciare dai fratelli Cohen, gli deve molto, a conferma di quel cortocircuito tra le varie discipline della cultura indipendente che presero piede nell’America degli anni ’90.
Eppure non fu sempre così. Fireflies, il ciclo del 1996 scattato in bianco e nero su pellicola analogica, ha un inedito gusto minimal raro in questo autore. Cathedral of the Pines (2012-14) e An Eclipse of Moths (2018-19) fanno parte dei lavori selezionati da Crewdson per introdurre il nuovo Eveningside, a completare una sorta di trilogia.
Qui ritroviamo il Crewdson più noto, con le atmosfere e le situazioni a lui care. I temi sono quelli della vita quotidiana, allestite nei luoghi di lavoro, della vita quotidiana dove non vi è traccia di eroismo, semmai scenario di piccole storie senza però quel tipico realismo americano ereditato dalla tradizione ma reso teatro, set di un film, tavolozza pittorica.
Classe 1962, nato a Brooklyn, vive tra New York e il Massachusetts, Gregory Crewdson è considerato giustamente tra i grandi autori, indipendentemente dal mezzo utilizzato. La mostra a Torino, curata da Jean-Charles Vergne esperto mondiale di fotografia, suona come uno di quegli appuntamenti imperdibili e starà aperta fino al 22 gennaio 2023.