È l’ottobre del 2022, sto per compiere cinquant’anni, scendo da un treno accaldata, prendo un taxi e apro il finestrino come in quelle scene di caldane degli sceneggiati televisivi, arrivo sotto casa e penso: io quasi quasi ora salgo e accendo l’aria condizionata. È il global warming? È la menopausa? È che sono mignotta?
È l’ottobre del 1986, ma pure quello del 1979, ma pure quello del 1990. È un qualunque ottobre in cui debba alzarmi per andare a scuola, e soffro il freddo come un’orfana dickensiana. Uscire dalle coperte (i piumoni mica erano la norma come ora) mi pare un’impresa impossibile, alle sette di mattina è buio e si gela e io darei le vite di tutti i miei affetti stabili per non dover esporre le mie giovani carni alle intemperie dell’acqua e sapone. È perché gli autunni padani nel secolo scorso erano più freddi? È perché alzarti presto, come tutto, è una cosa cui da piccola non sei ancora abituata? È perché vivo in una casa con soffitti di quindici metri e non c’è riscaldamento che basti?
È l’ottobre del 2022, entro nel mio palazzo e un cartello dice che secondo le nuove normative bla bla bla, la caldaia condominiale verrà accesa una settimana più tardi bla bla bla, e potrà restare accesa solo tredici ore al giorno bla bla bla, a una temperatura massima di 19 gradi «con tolleranza di 2» (immagino significhi: la accendiamo a 21, tanto non ci fanno la multa).
Penso allo scorso ottobre, quando un termosifone aveva la manopola rotta e finché non l’hanno aggiustata permettendomi di portarla a zero sono dovuta stare due giorni con le finestre aperte, perché il termosifone acceso era intollerabile. Penso allo scorso inverno, quando avrò acceso qualche termosifone forse per una settimana in tutto, forse un paio di giorni in cui ha nevicato. Penso all’aria condizionata che ho tenuto tutta l’estate a 18 gradi (scusa, Mario Draghi, ma ormai te ne vai e, come alla fine delle relazioni, ci possiamo dire tutta la verità), e se metto il riscaldamento a 19 mi tocca passare l’autunno in bikini.
Il portiere mi chiede scusa per il disagio. Il disagio di non accendere il riscaldamento la settimana in cui io devo esercitare continenza per non dormire con l’aria condizionata accesa. Una conoscente, al telefono, mi spiega che il cdr del suo giornale sta facendo pressioni per lo smartworking, ma lei è contraria, perché a casa a 19 gradi ha paura di congelare e vuole andare in redazione. (Ma se sono diciannove gradi per legge varrà anche per le redazioni, no? O gli open space sono città-stato?).
Da dove viene, questo timore del freddo? Da dove viene, in un’epoca in cui se anche non hai la menopausa ti basta indossare un paio di Ugg perché la temperatura percepita si alzi di dieci gradi? (Cari giornali di moda, se volete affidarmi una rubrica di consigli di stile sono qui pronta a scrivervi le mie direttive su un inverno casalingo nude ma con gli Ugg).
L’ultima stagione in cui ho avuto freddo è stata quella a cavallo tra il 2000 e il 2001. Conducevo un programma su Radio2 alle sei del mattino, il che significava uscire di casa alle cinque. Avevo ventotto anni e andavo in giro in motorino (Roma, tra le altre cose, ha questa caratteristica da relazione disfunzionale: convince i suoi abitanti che cose assurde, come gli adulti che girano in motorino, siano perfettamente normali).
Uscivo a gennaio in motorino da una casa di Monteverde alle cinque di mattina, facevo l’Olimpica, che è una specie di autostrada esposta alle intemperie che oggi non farei neanche a luglio temendo di rischiare la vita, e che allora percorrevo intabarrata in un lungo piumino marròn che, se non tiravo la lampo fino al mento, non sarebbe bastato a non farmi morire d’assideramento.
Quel piumino è ancora nel mio armadio, inindossato da vent’anni e memento del fatto che a trent’anni si è stupide davvero.
L’anno dopo abbandonai il motorino sul lungotevere per non usarlo mai più (senza neanche staccargli la targa, che probabilmente stanno usando da decenni per fare rapine per le quali prima o poi finirò in galera), e senza neanche dover fare promesse alla Rossella O’Hara non sono mai più salita su un motorino e non ho avuto freddo mai più.
Sono successe molte altre cose, negli ultimi anni: il mio cappotto preferito, un Lanvin comprato nel 2010, è ormai immettibile per eccesso di pesantezza. Lo scorso inverno l’ho fatto tutto con un Prada giallo che, quando lo comprai, aveva la voluttà dei soldi buttati: capirai, questi capi che c’è la temperatura giusta per metterli sì e no tre giorni di sole a marzo. Siamo diventati un mondo in cui il cappottino sfoderato che compri come lusso da mezza stagione te lo metti nei più freddi giorni di gennaio, e i più freddi giorni di gennaio non sono freddi una frazione di quanto fossero gelide quelle mattine in cui andavi a scuola in ottobre.
Non so dire se sia il riscaldamento globale o una delle molte cose che con la vecchiaia e la pratica inizi a tollerare molto meglio: la pulizia dei denti, la ceretta, l’inverno. So però che tutti quelli che sembrano avere la memoria ancestrale di inverni gelidi trascorsi all’addiaccio a chiedere l’elemosina coi mezzi guanti sono mie coetanei che, coi termosifoni a diciannove gradi e un paio di calzini di cachemire, dovrebbero stare bene quanto me. Certo, soffriranno i figli che devono alzarsi per andare a scuola, ma senza il trauma del piumone strappato da educatori impietosi poi ’sti ragazzini tra trent’anni che memoir scrivono?