C’è un momento in cui l’io narrante di Paolo Giordano, a una cena a Parigi, incontra una tizia che non sa chi lui sia ma che in compenso ha conosciuto tutti gli scrittori su cui Woody Allen fa i film, «le solite cose del Novecento che facevano apparire il presente fiacco e superficiale». Lei gli chiede di lui, del suo matrimonio slabbrato, del libro cui sta lavorando, che dovrebbe essere un libro sulle bombe atomiche sul Giappone; e poi mi uccide. Cioè uccide lui, ma lo sapete come funziona con quelli bravi, no? Che, parlandoti di loro, ti parlano di te. E quindi lei gli dice una frase micidiale, e chiunque legga accusa il colpo.
«Non che io pretenda di avere una conoscenza approfondita di lei, ha detto, come sa l’ho googlata giusto un attimo fa. Ma dal poco che ho intuito, lei sta attraversando una specie di… crisi. Possiamo chiamarla così? Nel frattempo lavora a un libro su dei fatti accaduti in Giappone settant’anni fa di cui non interessa più niente a nessuno. Sono curiosa: qual è il criterio con cui sceglie di cosa scrivere?».
A metà libro ho scritto a un amico: mi piace, ma non ho mica ancora capito dove va a parare. L’amico ha risposto: da nessuna parte, per fortuna. E quindi ho pensato che non avrei mai avuto risposta alla domanda che ti assilla quando ogni cosa la leggi, la guardi, la visiti pensando a cosa ne scriverai: di cosa parla?
Tasmania, il nuovo romanzo di Paolo Giordano, forse parla dei nostri tempi, forse parla di viltà, forse parla di matrimonio. Sul matrimonio, un tema su cui Giordano mostra una mirabile determinazione a sputtanarsi, ci sono dei passaggi che se trascrivessi ancora le frasi sul diario trascriverei subito (certo che trascrivo ancora le frasi sul diario, ma non sono così determinata a sputtanarmi da ammetterlo qui).
«Non eravamo solo una storia d’amore in crisi, eravamo anche un’infinità di altri aspetti inestricabili: un sistema di abitudini consolidate, una rete di relazioni sociali, un apparato burocratico. Dovevamo continuare a funzionare. E funzionare ci costava pochissimo».
Oppure: «Continuavo a vedere tutto anche attraverso i suoi occhi, forse le relazioni così lunghe sono davvero una malattia. Un’altra forma di cataratta giovanile che avevo sviluppato negli anni».
Il problema – che non so neanche se sia un problema, un’opportunità, una sfiga, una fortuna – è che non sono sicura di sapere (di volere?) scrivere di Tasmania senza scrivere di Giorgia Meloni, che in questi giorni ha il monopolio dell’immaginario di un po’ tutti, e chissà se durerà, e chissà se tra due anni rileggerò quest’articolo e mi chiederò perché ho zavorrato le mie impressioni di quel romanzo così bello con dei riferimenti a un’attualità di cui nessuno si ricorda più.
Leggevo la storia di Novelli mentre i commentatori italiani dissezionavano l’uso di «underdog» fatto dalla presidente del consiglio per definirsi. Novelli è un personaggio di Tasmania, un fisico con un caratteraccio che a un certo punto prende assai male il fatto che al concorso per una cattedra gli venga preferita una tizia che ha un terzo delle sue pubblicazioni ma ha una vagina.
«Underdog» significa non essere il più quotato per la vittoria e vincere comunque. Commentatori non so quanto stolidi e quanto pretestuosi hanno precisato che la Meloni è sempre stata favorita a queste elezioni, era sottosegretario a 29 precoci anni, e insomma che underdog sarebbe. Mi perdonerete se a questo punto faccio una cosa insolita: una divagazione.
Nel 2011, quando Aaron Sorkin aveva 49 anni, Esquire gli chiese di apparire nella rubrica What I’ve learned. A un certo punto c’era qualche riga sull’età che ho mandato a memoria. Faceva così: «Ci sono dei segnali stradali lungo la via dell’invecchiamento. Il primo è quando la coniglietta di Playboy è più giovane di te. All’improvviso ti senti uno zozzone: hai ventitré anni, ne ha diciannove, dovresti smetterla di guardare quella foto. Poi succede che gli sportivi professionisti sono più giovani di te. Poi gli allenatori. E infine, l’ultima cosa: sono coetaneo del presidente degli Stati Uniti».
Paolo Giordano compie quarant’anni tra qualche settimana. Quando uscì La solitudine dei numeri primi aveva appena compiuto venticinque anni. L’età alla quale Aaron Sorkin scriveva sui tovagliolini del bar in cui lavorava i dialoghi di quel che sarebbe diventato Codice d’onore, Orson Welles preparava Quarto potere, io cercavo di capire cosa volessi fare da grande, e Giorgia Meloni aveva già le idee chiarissime.
Non è mica un’underdog, obiettavano i saperlalunghisti: era già ministro a trentun anni, e a queste elezioni era favoritissima. Ma davvero mi state dicendo che voi vent’anni fa – ma pure dieci, ma pure cinque – avreste scommesso su una pischella di estrema destra come futura presidente del consiglio?
Quando Novelli non ottiene la cattedra non se ne fa una ragione. E un po’ di tempo dopo, invitato a partecipare con un proprio monologo a una manifestazione in diretta streaming, dice l’indicibile: non è vero che le donne nelle scienze sono svantaggiate, è che sono meno capaci. Certo, ottengono voti migliori finché si studia, ma quando poi si tratta di pubblicare qualcosa pubblicano meno, scoprono meno, valgono meno. Ovviamente scoppia un casino, e ovviamente gli indignati elencano le loro buone ragioni. Non è che le donne siano meno portate, è che i figli l’organizzazione del tempo la rava la fava.
L’altro giorno ho letto un articolo sulla lingua degli scrittori, il tizio che l’ha scritto è coetaneo di Giordano ma mentre leggevo non lo sapevo. Scriveva che a vent’anni nessuno leggeva Parise o Melville, leggevamo Carver o Salinger. Sgranavo gli occhi e facevo traballare il cappuccino e borbottavo macosacazzo, finché ho cercato il nome dell’autore e mi sono tranquillizzata: i dieci anni che fanno la differenza. Quelli che hanno permesso alla mia generazione di leggere la roba che valeva qualcosa e non quella che l’internet le faceva sbrilluccicare come indispensabile (sì, anche ai miei tempi si attraversava una fase-Salinger, però alle medie). Le solite differenze di chi è stato ventenne negli anni Novanta e considera chi lo è stato con l’euro fiacco e superficiale.
Tra i vantaggi d’essere stati giovani adulti a fine Novecento, c’è l’aver attraversato all’età alla quale frequenti già le librerie quegli anni in cui la più rilevante intellettuale femminista era Camille Paglia (non che poi ne siano arrivate di più rilevanti: abbiamo solo deciso che ci sentivamo meno minacciate dalle mediocri).
Per tutto lo scandalo-Novelli, mentre Giordano vilmente né solidarizzava né lo condannava, ho pensato a quella cosa verissima che diceva Camille Paglia: che non è vero che ci sono meno donne di successo, nella storia, perché sono state discriminate. Ci sono meno donne perché a certi livelli di eccellenza arrivi solo con un approccio ossessivo al tuo lavoro che le donne in genere non hanno. La ragione per cui non c’è mai stata una Mozart, diceva Paglia, è la stessa per cui non c’è mai stata una Jack la squartatrice.
Quando ce n’è una, è perché in lei ha trionfato il maschile – che non è una sconfitta, se non siamo così prive di senso del ridicolo da pretendere che essere ossessive rispetto alla merenda del puccettone di mamma sua valga quanto essere ossessivi rispetto al capire come scindere l’atomo. Se non siamo incapaci di ammettere che i Nobel non li vince proprio chiunque mentre i figli li fanno anche i gatti.
E invece siamo esattamente così: che diano il Nobel ad Annie Ernaux, per aver scritto in modo dolente quel che cinquant’anni prima Erica Jong scriveva con allegria, ci sembra una vittoria per le donne, mica una sconfitta per la letteratura.
Guardavo lo schermo in cui qualcuno sgridava Giorgia Meloni per un articolo maschile e altre amenità, e poi guardavo la pagina in cui zelanti studentesse sgridavano Giordano per non aver chiamato Marie Curie col cognome da nubile, e pensavo: ma il fisico o la fisica? Qual è il criterio con cui scegli che articolo usare?