Nomina sunt consequentia rerumLa (non ancora) presidente Meloni e il problema dei titoli col suffisso in -essa

La leader sovranista non si è ancora insediata a Palazzo Chigi, ma siamo già sicuri di poter usare il sostantivo verbale che non conosce differenze di genere. Invece termini come “presidentessa” non andrebbero usati perché nel tempo hanno assunto una connotazione tendenzialmente (e tendenziosamente) negativa, sminuente e denigratoria

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Con l’imminente insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi si riaffaccia la vexata quaestio di chi ha tempo da perdere: parlando della prima donna in Italia a capo dell’esecutivo bisognerà chiamarla presidente, presidentessa o come altrimenti, magari chiedendo aiuto allo spagnolo presidenta (suggestione latinoamericana che ha conosciuto qualche fortuna in Italia in riferimento a Cristina Kirchner, presidente della Repubblica argentina dal 2007 al 2015 – oggi ne è vicepresidente)? Annotato che il dubbio non si poneva quando la premier in pectore si limitava a presiedere il suo partito, né si è posto con le donne che, a partire da Nilde Iotti, hanno presieduto una delle due Camere o con le (non molte) donne presidenti di Regione, e considerato che alla perdita di tempo si può dare comunque un senso ampliando il discorso, proviamo a perdere un po’ anche qui.

A rigor di grammatica, in realtà, il problema non sussiste: presidente è infatti un sostantivo verbale, ossia formato a partire da un verbo, derivando dal latino praesidens praesidentis, participio presente di praesido (il participio si chiama così proprio perché “partecipa” tanto della natura del verbo quanto di quella del nome), e in italiano come in latino il participio presente, a differenza del participio passato, non conosce differenze di genere, sia nella sua funzione verbale sia in quella nominale. Dunque va benissimo dire “la presidente”, così come si dice “la docente”, “la dirigente”, “la sovrintendente”, “la cantante” (sebbene ci sia una nota cantante che si è intestata di farsi chiamare “la cantantessa”), lasciando affidata all’articolo la distinzione di genere. 

Dire “presidentessa” non è in sé sbagliato: il ricorso a un suffisso forte quale -essa per marcare morfologicamente il femminile ha una consolidata e rispettabile tradizione che risale al greco antico e al latino (basilíssa, femminile di basiléus, re; abatissa, da cui il nostro badessa). E infatti, in stretta connessione con il latino tardo, in italiano è stato ed è largamente utilizzato: per i titoli nobiliari (principessa, duchessa, contessa, baronessa), i titoli professionali, le occupazioni e le cariche (professoressa, dottoressa, sacerdotessa, studentessa, poetessa), per alcune specie animali (leonessa, elefantessa). Tranquillamente impiegato per tutto l’Ottocento, con le grammatiche dell’epoca pronte a registrare le formazioni lessicali derivate, questo suffisso ha perso vitalità nel corso del Novecento, in coincidenza con il crescente ruolo sociale delle donne che rivendicavano il diritto a occupare mansioni tradizionalmente monopolizzate dagli uomini e conseguentemente il diritto a una denominazione propria che non sembrasse una deformazione di quella maschile. 

Al di là dei femminili ormai consacrati dall’uso, come quelli citati sopra, nell’ultimo secolo la formazione di nuovi sostantivi in -essa ha così assunto una connotazione tendenzialmente (e tendenziosamente) negativa, avvertita di volta in volta come sminuente, ironica o apertamente denigratoria. La parola presidentessa non si usa per le donne che presiedono organi e organismi istituzionali o importanti consigli d’amministrazione di enti pubblici o privati, ma spesso torna in campo quando si tratta di realtà organizzative minori, circoli a carattere spontaneo, comitati estemporanei sorti per le minime cause più diverse. Oppure per designare – con una sfumatura non sempre benevola, per esempio quando l’interessata tende a eccedere i limiti di discrezione che ci si attenderebbero da lei – la moglie di un presidente (così già nell’edizione 1938 di Lingua contemporanea di Bruno Migliorini). 

Allo stesso modo la generalessa, a meno di intendere con questa parola la superiora generale di una congregazione religiosa, non è una donna appartenente alla categoria più alta della gerarchia militare (nel qual caso sarebbe designata come generale), ma la moglie di chi si fregia di tale grado, o in senso lato e più ironico una signora dal carattere autoritario. Sfumano invece dal tono (magari involontariamente) ridondante a quello scherzoso a quello più marcatamente denigratorio altre formazioni in -essa che denotano quanto meno diffidenza nei confronti di chi esercita determinate funzioni: avvocatessa al posto del morfologicamente più naturale avvocata (i maschili in -o derivanti dalla seconda declinazione latina in -us formano pianamente il femminile i -a), deputatessa anziché deputata (idem come sopra), sindachessa per sindaca (idem), vigilessa per vigile (aggettivo sostantivato, in quanto aggettivo la parola vigile rimane invariata; perché allora srotolare il sibilante suffisso quando diventa un nome e si applica a una donna?).

Il problema di come volgere al femminile sostantivi nati come maschili è uno dei più spinosi che si presentino nella lingua e dà origine a soluzioni variabili a seconda delle desinenze (spesso anche in presenza della medesima desinenza), da cui non sempre è possibile ricavare ex post una regola. Non qui è il caso di trattarne. Basti osservare che come sempre è l’uso a consacrare le parole nuove, che inizialmente possono risultare ostiche o perfino un po’ strampalate: tale è stato il caso, per esempio, di ministra o di architetta, e ancora in parte lo è – sono termini in fase di transizione – per assessora, ingegnera, medica, arbitra. La difficoltà a far passare certe forme femminili è oggettiva e spesso inerente a inveterate abitudini linguistiche più che a discriminazioni di genere, come nel caso della parola direttrice che una volta faceva pensare prevalentemente a una preside di scuola, e solo più di recente si è diffusa in riferimento alle donne che dirigono giornali, musei o altre istituzioni culturali, ma ancora fatica a essere accettata in alcune situazioni come la direzione del personale o la direzione d’orchestra: tanto è vero che una celebre e avvenente bacchetta femminile pretende di essere qualificata come direttore (e, ovviamente, guai a chiamarla “maestra”). 

A mano a mano che la realtà sociale si evolve, si adattano anche le parole che la rappresentano. È un processo graduale e inevitabilmente lento che è inutile forzare: nomina sunt consequentia rerum, non viceversa. Per questo appaiono contronatura, controproducenti, al limite del ridicolo certe pretese che sempre più si intensificano di modificare la realtà a partire dal vocabolario. E il ridicolo uccide.

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