Letteratura queerMembrana: un viaggio in cui corpi, identità e generi si trasformano e si reinventano

Pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1995, questo libro è un classico della narrativa speculativa queer in cinese. Per i lettori de Linkiesta Eccetera il primo capitolo di un’avventura cyberpunk

Pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1995, Membrana è un classico della narrativa speculativa queer in cinese. Ripubblicato da add editore in lingua italiana, questo libro, di cui vi regaliamo come estratto il primo capitolo, presenta il genio creativo dello scrittore Chi Ta-wei che, con talento predittivo, immagina la saturazione provocata dai social media e il monitoraggio corporeo, intrecciandoli a tòpoi distopici come il dominio della tecnologia e dei regimi capitalisti. Questo romanzo visionario e sublime si distingue per l’estetica cyberpunk e i temi queer e trans. Un viaggio in cui corpi, identità e generi si trasformano e si reinventano, ponendo questioni radicali: gli esseri umani sono ancora padroni della loro memoria e del loro futuro? Buona lettura!

Membrana, add editore

Momo sfiorò la carta da parati gialla in camera da letto, poi diede un piccolo morso a una pesca bianca, di quelle che si coltivavano in serra. Dalla buccia rosa, quasi diafana, colò il succo. Non era del tutto sicura che la rete neurale sottopelle fosse davvero entrata in contatto con il giallo della tappezzeria, né che le papille gustative percepissero realmente la dolcezza della polpa. C’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne.

Per Momo il mondo era avvolto da una membrana. A trent’anni continuava a pensare che ci fosse una specie di pellicola tra lei e tutto il resto. Non quella delle maschere di bellezza che usava sul lavoro, ma piuttosto una barriera invisibile che la faceva sentire come una pulce d’acqua, avvolta dal proprio carapace traslucido e sola in mezzo a un mare che non la toccava mai, anche se la circondava…

Momo era un’estetista specializzata nei trattamenti della pelle. Quando applicava le maschere a base di alghe o insetti ai clienti, percepiva una specie di membrana di protezione tra le sue dita e il loro viso. Per lei era impossibile entrare in confidenza con qualcuno. Chi non la conosceva la trovava misteriosa, secondo i clienti abituali era un’asociale. Provava una specie di estraneità impalpabile, che non avrebbe saputo definire meglio.

Era come se nuotasse ancora nel liquido amniotico dentro il grembo di sua madre. Era segretamente convinta di non potersi integrare in questo mondo, arrivava anche a pensare che il mondo non fosse il posto per lei. Non che avesse dei propositi suicidi, ma sentiva di appartenere a un altro spazio e a un altro tempo: era come una pesca infelice che desiderava cambiare albero. Magari per qualcuno i peschi sono tutti uguali, uno vale l’altro, no? E invece no. Due alberi sono due microcosmi a sé.

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Momo aveva una particolare affinità con le pesche. Il profumo le dava un senso di calore, la polpa in bocca la faceva tornare all’infanzia. Nei dieci lunghi anni da studentessa, si era sempre concessa il lusso di una pesca prima di andare a dormire, una carica di vitamine contro la stanchezza, che la ritemprava dopo le fatiche della giornata. Quella dolcezza la cullava nel mondo dei sogni.

Forse per questo, nonostante l’indole scostante e lunatica, anche agli estranei veniva spontaneo associare il pallore del suo viso, delicatamente tinto di rosa, alla freschezza vellutata delle sue amate pesche. In giapponese il suo nome, Momo, significava proprio «pesca». Da piccola aveva chiesto alla madre di raccontarle come era nata.

Momo non era spuntata fuori dall’ombelico e non era stata trovata in un cassonetto. Tantomeno era andata come ti spiegano ai corsi di educazione sessuale. La madre diceva che tanto tanto tempo prima aveva fatto un viaggio con una cara amica: durante una passeggiata in collina mano nella mano, cammina cammina, erano arrivate in cima, dove c’era un pesco. Il profumo dei frutti era inebriante e loro due erano state sopraffatte da una piacevole sensazione di benessere. L’amica aveva insistito per salirle in spalla e prenderne uno, se ne fregava dei pesticidi o di essere beccata in flagrante. Le due complici avevano colto la pesca più grande dell’albero. Aveva un profumo invitante, era grossa come una testa! La madre era felice e aveva detto: «“Godersi la pesca” è un modo di dire cinese che viene da una storia molto antica. Indica un’amicizia speciale tra due persone, che soltanto loro possono capire. Dai, spartiamocela, metà ciascuna, come pegno d’amore!».

Così si erano accinte a dividere il frutto in due. Ma appena la lama aveva inciso la buccia, ecco un gemito: dentro c’era una bambina! Le due donne, emozionatissime, avevano compreso che era lì per loro, come in una fiaba! La neonata aveva le guance colorite e sapeva di buono, era davvero la figlia di una pesca. Ecco perché l’amica della madre aveva pensato a quel nome. Lei era giapponese e un’antica leggenda del suo Paese raccontava di un bimbo nato da una pesca che si chiamava Momotaro, «il ragazzo delle pesche». Così avevano deciso: le avrebbero dato il nome «Momo». Per scriverlo in cinese avevano scelto due caratteri che significano «silenziosa».

«E questa è la tua storia» aveva concluso la madre. Momo non aveva creduto a quel racconto strampalato, era una bambina del XXI secolo e sapeva cos’era il sesso. Ma lo trovava talmente affascinante che se l’era fatto an- dare bene. Ne era persino orgogliosa, aveva qualcosa di magico.

Aveva tante altre domande: dov’era l’amica giapponese della madre? Chi era veramente? Perché non l’aveva mai vista? La madre era stata evasiva: «Abbiamo litigato». Non c’era niente di strano se due amiche litigavano e si allontanavano. Così era rimasta soltanto la madre a occuparsi di Momo, la piccola pesca. «Da grande non litigherò mai coi miei amichetti; staremo insieme per sempre» si era ripromessa allora Momo. Per sempre. Punto!

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Ora aveva trent’anni e giocherellava con quella pesca che le riempiva il palmo come un seno. Figurarsi l’amica! Erano vent’anni che non vedeva nemmeno sua madre. Vent’anni… Quanto tempo. Ma poi, avrebbe avuto senso rivedersi? Ormai erano due estranee, sarebbero andate a malapena oltre i convenevoli. Chissà se la mamma sarebbe stata curiosa di vedere che aspetto aveva lei adesso? Per parte sua era disposta ad ammettere che le sarebbe piaciuto vedere com’era diventata sua madre. Si osservò il dito medio della mano che reggeva la pesca. Benché fosse nuovo di zecca, lo muoveva con estrema naturalezza. Ripensò al piccolo intervento di pochi giorni prima.

Da qualche tempo avvertiva delle fitte e il dito aveva anche perso elasticità. Durante il controllo al centro medico robotizzato di zona, le avevano diagnosticato un disturbo molto comune nel suo mestiere. Data la particolare costituzione di Momo, si doveva procedere con un intervento bionico: le avrebbero sostituito il dito. Lei aveva il terrore delle operazioni, di quelle bioniche in particolare, le risvegliavano ricordi che avrebbe preferito cancellare! Si era rassegnata a fare il trapianto unicamente per via del lavoro.

Non era costato molto. L’operazione in sé non era dolorosa né particolarmente invasiva. Bastava infilare la mano in un apposito sportello automatico che faceva un calco e presentarsi il giorno successivo in ospedale allo stesso sportello. Dopo l’anestesia locale, nel giro di mezz’ora ti impiantavano un dito bionico perfettamente funzionante. Era sufficiente stare a riposo un’ora in modo che si riattivasse la circolazione, poi potevi riprendere le solite attività.

Momo aveva orrore del trapianto per paura di rovinarsi la reputazione? Non esattamente, anche se, per un’artista della pelle come lei, un problema del genere poteva diventare in fretta uno scandalo: come per i pianisti, tutto il suo prestigio stava nelle dita. Anche il talento musicale più straordinario ha bisogno di dita agili per esprimersi. Il pianoforte di Momo erano i corpi che trattava: le sue mani erano in grado di far risuonare melodie che si credevano perdute, anche sui pazienti più malmessi. Insomma, un’estetista che aveva subìto un trapianto rischiava tanto quanto una pianista: la concorrenza era pronta ad approfittare di qualunque calo di rendimento, e bastava pochissimo per perdere la fiducia dei clienti. Ma a lei tutto questo non importava: aveva divulgato in prima persona la notizia ai media senza temere conseguenze in termini di immagine, certa di poter compensare con la sua arte qualsiasi carenza delle dita. L’angoscia per l’operazione non era legata al rischio di un danno professionale: non era questo a spaventarla. Erano i suoi ricordi.

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Momo premette un tasto sul telecomando e il soffitto si aprì rivelando la membrana traslucida e impermeabile da cui filtrava la luce. Un cielo liquido. Sopra l’elegante distretto residenziale dove viveva, la membrana era pulita, senza traccia di coralli e anemoni. Alzando lo sguardo verso le insondabili profondità dell’oceano, si vedevano le onde turchine e argentate del mondo oltre la membrana che spumeggiavano e si accavallavano senza posa. Un’ombra scura attraversò fulminea le acque turbando il passaggio di un ordinato banco di pesci pagliaccio. «Un MM» pensò Momo assorta, reggendosi la testa con la mano. Un mezzo da guerra anfibio. Dicevano che in superficie fossero riprese le manovre militari, e in effetti sempre più spesso gli MM solcavano gli oceani in assetto da battaglia.

Da piccola Momo era molto curiosa di visitare le terre emerse, ma non aveva mai realizzato quel sogno. Le leggi per la tutela dell’infanzia prevedevano che solo gli adulti potessero salire in superficie, e adesso che aveva trent’anni era lei a rifiutarsi di lasciare il suo angolino di città sommersa. Non provava più quell’ardente desiderio di sa- lire in superficie, migliaia di metri sopra la sua testa. Si giustificava con il lavoro che la impegnava troppo, eppure da bambina quanto aveva fantasticato su quelle distese! Assaporò la polpa della pesca e la inghiottì lentamente.

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Quando si svegliò, il nocciolo le era rotolato dalla mano. Stava sognando di condurre una vita atroce sulla terraferma. Uno stridio penetrante la trafiggeva lasciandola inerme come un pesce ed era esposta direttamente al sole, senza protezioni contro i raggi ultravioletti che perforavano la membrana delle sue cellule simil-epidermiche. Erano questi gli incubi che si facevano in una città sottomarina nell’estate del 2100.

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