In tempi di crisi, la tentazione di qualunque governo è quella di alzare una muraglia attorno al proprio Paese, per tenere il mondo fuori – come se questo potesse aiutare a risolvere i problemi. Il nuovo esecutivo dovrà superare questa tentazione, perché se vi cedesse rischierebbe di rendere la situazione ancora più critica.
Il 2023 sarà con ogni probabilità un anno molto complicato dal punto di vista economico. L’inflazione determinerà un impoverimento generalizzato; la crisi energetica metterà in ginocchio famiglie e imprese e potrebbe anche determinare dei razionamenti nella seconda parte dell’inverno; l’aumento dei tassi ci farà avvertire tutto il peso del nostro debito pubblico, con una spesa per interessi destinata a crescere rapidamente e a riempire quel poco spazio fiscale che abbiamo.
In questo contesto, c’è poco che la politica possa fare, se non porre le premesse per rinvigorire la crescita e favorire la ripresa economica.
Sfortunatamente, alcune scelte compiute negli ultimi anni sembrano andare in senso opposto e vellicare i peggiori istinti dei partiti. È qui che Giorgia Meloni, dopo aver ricevuto l’incarico dal Presidente Sergio Mattarella, dovrà imporsi per evitare che la politica sia parte del problema, anziché parte della soluzione. Prendiamo due esempi.
Il primo riguarda le norme introdotte l’anno scorso per contrastare le delocalizzazioni, attraverso l’appesantimento delle procedure preliminari alla chiusura degli stabilimenti produttivi e l’obbligo di restituzione degli eventuali aiuti ricevuti.
Queste misure non hanno, finora, sortito alcun effetto sostanziale. Sarebbe un errore, come qualcuno suggerisce, pensare di irrigidirle: leggi fatte per impedire alle imprese di andarsene finiscono inevitabilmente per sortire l’effetto opposto, cioè disincentivare le imprese dal venire in Italia in primo luogo. Porre le basi per una crescita sostenuta vuol dire anzitutto attrarre imprese, cioè aprire il paese ai mercati internazionali.
Per la stessa ragione, la prossima premier dovrebbe mettere mano alla confusa e arbitraria disciplina del golden power. Anziché dare al governo gli strumenti per difendere gli attivi “strategici” (qualunque cosa ciò voglia dire) da operazioni potenzialmente lesive della sicurezza nazionale (qualunque cosa ciò voglia dire), il golden power ha un perimetro indefinito, riguarda virtualmente qualunque impresa medio-grande e coinvolge operazioni societarie di qualunque tipo. In tal modo, agisce come una sorta di tassa implicita non solo sul valore degli asset, ma anche sulla potenzialità del paese di creare valore.
Il nazionalismo economico non è mai la soluzione. Meno che mai lo è in un momento in cui il motore dell’economia si sta incartando e ha bisogno di nuovo carburante.