La lingua batte dove la preposizione duole. In particolare le preposizioni che reggono i complementi indiretti, ossia quelli che a differenza del complemento oggetto (complemento diretto) nella maggior parte dei casi per completare la frase hanno bisogno di un tramite: ed è su questo tramite, la preposizione, che come si suol dire casca l’asino.
Sorvolando sul surreale utilizzo di per in luogo di da per introdurre il complemento d’agente (“venti gol per lui”, nella koiné maccheronica dei telecronisti sportivi di cui “Linguaccia mia” si è già occupata, la preposizione più dolente è quella che regge il complemento di materia. Il complemento di materia, che indica la sostanza di cui si compone una cosa, può essere introdotto dalle preposizioni di o in. Peccato però che l’uso – non tanto nel parlato comune, quanto nel linguaggio che a torto si presume più formale – scivoli sempre più verso la seconda delle due: “bracciale in argento”, “pavimento in marmo”, “pilastri in cemento armato”, “divano in pelle”, “telaio in alluminio”, “lampadario in ferro battuto”, “guarnizioni in gomma”, “astuccio in silicone”, “blusa in organza”, “libreria in mogano” e così via. Sembra inverosimile ma c’è perfino, e non è rara, la forma “ricco in”, che si trova soprattutto sulle confezioni di prodotti alimentari, per esempio “ricco in fibre” nel caso di prodotti da forno a base di farine integrali (ma si può?!): con questo sconfiniamo dal complemento di materia per affacciarci su quello di abbondanza, ma è una riprova dell’attrazione fatale (fatale, spesso, alla grammatica) esercitata dalla preposizione in.
Sembra quasi che si abbia ritegno a usare di. Ma fino a che punto è lecito sostituirlo? Nella sua forma semplice o in quelle articolate la preposizione in, come spiega La grammatica italiana Treccani (2012), “esprime innanzitutto la relazione di due oggetti di cui uno sia contenuto nell’altro”, e può indicare stato in luogo (“una villa in collina”, “tenere le mani in tasca”), moto a luogo o penetrazione (“andare in montagna”, “versare nel bicchiere”), situazione o condizione (“vivere in solitudine”, “trovarsi in pericolo”). In senso lato, in rimanda a un’idea di “dentro”: e quindi, riprendendo gli esempi di cui sopra, un bracciale dentro l’argento, una libreria dentro il mogano? Andiamo… È semmai l’argento a trovarsi nel bracciale, il mogano nella libreria.
Aldo Gabrielli, che trattando del complemento di materia a di e in aggiunge su, con una tabella schematica e quattro semplici esempi, nel suo Dizionario linguistico moderno (Mondadori 1956) ci aiuta a orientarci. La domanda sottintesa a cui risponde questo complemento è “di che cosa?”, “in (su) che cosa?”. Ed ecco l’esemplificazione: “la tavola di legno”, “una medaglia d’oro”, “inciso nel marmo”, “pittura su tela”. Chiaro? Con la preposizione di si qualifica il materiale di cui un oggetto è composto, con la preposizione in (o su) il materiale nel quale è realizzato (scolpito, inciso, intagliato. Alcuni materiali – la lana e tutti i filati, il calcestruzzo e gli altri materiali da costruzione, le diverse farine (nessuno direbbe “pasta in grano duro”) – si prestano essenzialmente a essere manipolati e trasformati per ottenere qualche cosa di radicalmente diverso da ciò che li compone, e di conseguenza vogliono (vorrebbero) la preposizione di. Altri (l’oro, l’argento e in genere i metalli, il marmo, il legno, l’avorio, ma anche la gomma, la plastica ecc.) possono sia essere trasformati (utilizzati per costruire qualcosa di altro da sé), sia accogliere in sé una forma (nel qual caso la preposizione in focalizza l’attenzione sulla componente materiale): quindi, per esempio, una medaglia potrà soltanto essere d’oro (o di altre sostanze meno nobili), ma la figura e l’eventuale scritta che vi compaiono saranno realizzate a sbalzo o incise in (o su) oro; un pavimento sarà fatto di marmo o di legno, ma in marmo potrà essere realizzato un bassorilievo e in legno scolpita una statua.
Ma tant’è, in ha questa cattiva abitudine di allargarsi e di ne fa le spese: come si vede anche quando si parla di studenti. Uno può essere studente di scuola media, di liceo, dell’università, ma arrivato a questo punto, se occorre specificare la disciplina, può accadergli di diventare “studente in” (filosofia, medicina ecc.), mentre la forma corretta vorrebbe “studente di”. Ci si laurea in, ma si è studenti di.
Anche negli usi linguistici, tuttavia, vale il principio che chi la fa l’aspetti: e la tracotanza di in deve a sua volta subire le mire espansionistiche di un’altra preposizione, in questo caso a, il cui uso nei complementi di luogo (stato in o moto a) è generalizzato da Roma in giù (cfr. “Linguaccia mia” del 9 maggio). Non solo, come è corretto, quando si indica un luogo indefinito senza ulteriormente precisarne l’ubicazione (“abito/vado a Napoli”), ma anche quando l’ubicazione precisa è presente (“abito/vado a via del Corso”) e meglio sarebbe definita dalla preposizione in.
D’altra parte, nelle stesse regioni, il ricorso sovraesteso alla preposizione a è controbilanciato dalla sua (erronea) soppressione nei casi in cui invece sarebbe richiesta: non “vicino Roma”, ma “vicino a Roma”. Mentre è diffusa in omnes, constans (sperabilmente non sempiterna), come la legge naturale nelle parole di Cicerone, l’abolizione di a in connessione con il verbo pronominale riflessivo sobbarcarsi. Sintassi e etimologia (sub + imbarcare) vorrebbero “sobbarcarsi [sottoporre sé stessi] a un compito gravoso”. Invece (quasi) tutti “si sobbarcano [sobbarcano a sé] il compito”, trasformando il complemento oggetto (diretto), in questo caso si (sé stessi), in complemento (indiretto) di termine: la tirannia dell’uso.
E così la preposizione in prevarica di, che è prevaricato dalla preposizione a, che viene soppressa quando non dovrebbe. Sembra una filastrocca, è la legge del contrappasso.