Cosa hanno in comune gli attuali amministratori delegati di Microsoft, Twitter, Chanel, OnlyFans, Adobe, Ibm, Deloitte, Vimeo, Novartis, Alphabet (Google), Starbucks, Nokia, Motorola e Fedex? Sono originari dell’India (come i conterranei fino a poco tempo fa a capo di aziende del calibro, giusto per fare due esempi, di PepsiCo e Mastercard). Plurilaureati o con vari master, parlano più lingue, sono cittadini del mondo.
Sundar Pichai (Google), Satya Nadella (Microsoft) e Arvind Krishna (Ibm) sono tra i più famosi, ma l’elenco è in aumento e non mancano le donne, come Indra Nooyi diventata Ceo di PepsiCo dal 2006 al 2018, costantemente classificata tra le prime 100 donne più potenti del mondo, o come la più giovane Anjali Sud (nata nel 1983) Ceo di Vimeo, nominata Young Global Leader del World Economic Forum nel 2019.
Sono 60 gli amministratori delegati di origine indiana tra le 500 aziende più grandi del pianeta (Fortune 500). Ma il dato qualitativo, seppur quello quantitativo rimanga impressionante, considerando fra l’altro che le prime 20 aziende con Ceo di origini indiane capitalizzano a oggi più di 4,7 trilioni di dollari americani, rimane quello di vero interesse.
Perché stanno crescendo di numero e perché governano tra le più grandi e innovative aziende americane e non?
Nel marzo 2010 è stato pubblicato “The India Way”, scritto da Peter Cappelli, Harbir Singh, Jitendra Singh e Michael Useem della Wharton School India Team (la Wharton School è la Business School dell’Università della Pennsylvania). Lo studio si è basato su diverse interviste a più di cento alti dirigenti leader delle più grandi aziende indiane, aziende che negli ultimi due decenni, insieme a molte altre, hanno ottenuto una crescita a due cifre anche nel mezzo di una recessione globale.
Gli autori pensano che i manager indiani abbiano un modo di fare diverso dagli altri colleghi e identificano un insieme di principi di gestione innovativi, non convenzionali ed esportabili che hanno chiamato “India Way”.
Gli autori mettono in evidenza come l’India Way differisca dalla pratica di gestione occidentale nel modo in cui le organizzazioni gestiscono e valorizzano i dipendenti; superino gli ostacoli attraverso l’improvvisazione e l’adattabilità senza scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; creino proposte di valore creative convincenti capaci di servire un mercato enorme anche in aree più svantaggiate economicamente; si dotino di una visione a lungo termine e sappiano porre le questioni sociali come priorità aziendali.
E sostengono che l’India Way potrebbe avere lo stesso notevole impatto che i leader aziendali giapponesi (il riferimento è la “Toyota Way”) hanno avuto sulla produzione in tutto il mondo: potrebbero cambiare la pratica – e lo scopo – della gestione manageriale su scala globale.
Visione, scopo, pragmatismo e persone, sono i 4 elementi che ben sintetizzano gran parte dell’essenza dell’India Way. Quattro le best practice principali: pieno e continuativo coinvolgimento dei dipendenti, improvvisazione e adattabilità dei manager, capacità di creare valore per i clienti e un ampio, diffuso e consapevole senso di missione e scopo. Dalla loro anche i risultati: durante gran parte degli anni 2000, il prodotto interno lordo (Pil) dell’India è aumentato di oltre il 9% all’anno, diverse volte quello degli Stati Uniti e quasi uguale a quello della Cina.
Non intendo farne una questione ovviamente di genere ma lo “stile manageriale Indian Way” merita di essere studiato e approfondito per diventare un modello anche per le cosiddette culture manageriali occidentali.
Sebbene ben consapevoli dei metodi occidentali, i grandi manager e imprenditori indiani hanno aperto una loro propria strada, portando a casa indiscussi risultati.
«Nessuna delle persone che abbiamo intervistato ha suggerito che le loro aziende abbiano avuto successo grazie alla loro intelligenza strategica o grazie agli sforzi di un top team», spiegano gli autori dello studio. «Non hanno menzionato l’abilità nei mercati finanziari nel promuovere fusioni, acquisizioni o partnership, talenti che i Ceo occidentali spesso affermano di avere sulla base delle prestazioni delle loro aziende. Quasi senza eccezioni, questi leader hanno affermato che la loro fonte di vantaggio competitivo risiede nel profondo delle loro aziende, nelle loro persone».
Come Vineet Nayar, Ceo del gigante indiano dei servizi It Hcl, che guidato dal motto «Prima il dipendente, poi il cliente», ha invitato i dipendenti a valutare i loro capi e i capi dei loro capi; quindi, ha pubblicato i suoi giudizi sull’intranet dell’azienda affinché tutti potessero vederli e ha esortato gli altri a seguire il suo esempio. Cercava «trasparenza e empowerment» nell’azienda per «prendere decisioni nei punti in cui le decisioni dovrebbero essere prese», ovvero insieme ai dipendenti e dove l’azienda incontra il cliente.
Nayar potrebbe essere liquidato come un idealista, tranne per il fatto che la sua azienda ha più di 200mila dipendenti e una capitalizzazione di mercato di 32 miliardi di dollari americani.
Il prof. Warren Gamaliel Bennis, che ci ha lasciati nel 2014 all’età di 89 anni, oltre a essere stato consigliere di diversi Presidenti americani, ha per anni studiato pioneristicamente cosa vuol dire essere leader. Il suo libro del 1989 “On Becoming a Leader” è una lettura obbligatoria per qualsiasi Top Manager aziendale. Bennis spiega come un leader di successo (un manager può essere o non essere un leader) debba prima avere una visione guida del compito o della missione da compiere e la forza di persistere di fronte a battute d’arresto, persino al fallimento. Un leader deve avere passione e saperla comunicare. E non può mancare l’integrità.
Ma il professore era molto sconfortato dalla mediocrità dei grandi manager.
Continuando a scrivere sul tema della leadership, pubblicando in quattro decenni una trentina libri sul tema, negli ultimi anni Bennis era diventato più ottimista sulla futura ondata di leader aziendali, etichettandola come «la generazione del crogiolo», dal nome dei vasi usati dagli alchimisti medievali nei loro tentativi di trasformare i metalli vili in oro.
I “crogioli” in questione erano i momenti in cui erano costretti a interrogarsi su chi fossero e cosa fosse importante per loro, capaci – con una abilità quasi magica – di trascendere le avversità ed emergere più forti di prima, trasformando un problema in una opportunità, un errore in un arricchimento.
Piuttosto che «arroganza e ancora arroganza», affermava Bennis, il marchio di leadership di questa nuova generazione potrebbe essere caratterizzato da «rispetto, non solo tolleranza».
Ed è quello che queste generazioni di leader aziendali indiani o di origine indiana ci mettono davanti: il rispetto per le persone e quanto sia fondamentale saperle coinvolgerle, facendo emergere l’intelligenza e la sensibilità collettiva guidata con la dovuta serenità, unita a una grande capacità di adattamento, di chi ha una missione da svolgere senza la schizofrenia del short-term, a favore degli stakeholder e nel contempo anche degli azionisti.
Nel suo libro “An Invented Life: Reflections on Leadership and Change” (1993), Bennis scrive: «Un leader non è semplicemente qualcuno che sperimenta l’euforia personale di essere al comando. Un leader è qualcuno le cui azioni hanno le conseguenze più profonde sulla vita di altre persone, nel bene e nel male, a volte per sempre».
Una enorme responsabilità. Una responsabilità in primis legata al futuro delle persone.