Piccolo repertorioLe cose e i ricordi che abbiamo messo in valigia, con cui ricostruiremo il nostro Paese

Da quando è cominciato l’attacco russo che ha distrutto case e monumenti, anche le cianfrusaglie sono diventate preziosissime. Ci danno sicurezza, ci garantiscono che il domani verrà e andrà tutto bene. Perché se Kyjiv non è caduta ora, non cadrà mai

Ludovic Marin, Pool via AP

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A febbraio di quest’anno, ancora prima che le bombe russe cadessero sulle città ucraine e prendesse piede l’invasione russa su larga scala, milioni di ucraini si sono affrettati a fare i loro kit di emergenza. Hanno preparato le cose di prima necessità e gli animali domestici per una possibile fuga. Hanno lasciato le loro case per trovare un posto sicuro, la salvezza e l’incertezza. Ma quelli che hanno fatto le borse di emergenza in anticipo, coscienti che la grande guerra sarebbe arrivata, erano una minoranza. In questo esodo biblico alcuni credevano di partire per una settimana, altri fino all’estate avanzata, altri ancora sapevano di lasciare la loro casa per sempre.

Alcuni hanno avuto la fortuna di partire con una macchina, magari propria o di amici e parenti, caricando fino all’impossibile il portabagagli. Altri hanno affollato le stazioni aspettando i treni di evacuazione, sistemandosi in dieci o in quindici in uno scompartimento da quattro persone. Hanno dovuto lasciare i loro animali domestici e i loro oggetti personali, preparati in anticipo, direttamente sui binari, perché sui treni non c’era più posto libero. Le persone salvano le persone. Migliaia e migliaia di ucraini sono diventati sfollati e sono rimasti senza niente, perché le loro case sono state distrutte dai missili o dai carri armati russi.

Quando penso a quei disperati giorni, mi torna sempre in testa la domanda: che cosa c’era in quelle valigie? Quali oggetti personali portavano gli ucraini con sé e quali abbandonavano? Come si fa a far stare una vita – le cose più importanti e più care – dentro una valigia? Che cos’era diventato per loro il simbolo di questa guerra?

Quando ho preso la decisione di lasciare la mia Kyjiv, oltre a un paio di cose invernali, ho preso il ritratto di mia mamma, i manoscritti con le sue poesie, i testi per il teatro e i racconti inediti, l’archivio delle vecchie foto di famiglia, alcune delle mie grafiche preferite di artisti ucraini, i diplomi universitari, le perle e i gioielli che ha ereditato mia mamma da mia nonna. Se avessi perso quelle cose, avrei perso qualcosa di importante, addirittura me stesso. Forse non è un comportamento normale in un mondo che tende a rompere con la cultura materialista. Oggi la flessibilità viene apprezzata più dell’appartenenza al posto, e le identità diventano più liquide e inafferrabili.

Gli ucraini hanno un rapporto particolare con la cultura materiale. Gli oggetti e gli artefatti del passato sono quelli che ci aiutano a ricomporre il puzzle della nostra storia e e della nostra identità. Ci aiutano a trovare i punti fermi in un presente turbolento e sbilanciato. Certo, la cultura ucraina è ricca anche di cose non materiali, come i testi delle canzoni, la musica, il folclore, la lingua, i miti famigliari, la memoria collettiva. Però oggi, quando l’esercito russo sta cancellando dalla faccia della terra intere città ucraine, proprio il mondo materiale assume un peso simbolico importante.

Negli ultimi mille anni, l’Ucraina ha perso numerosi edifici e monumenti, memorie della travagliata storia ucraina. Nel 1240 l’esercito mongolo guidato da Batu Khan ha distrutto la Kyjiv con le cattedrali in pietra della Rus’ di Kyjiv. La tradizionale cultura delle costruzioni in legno dell’Ucraina settentrionale, carpaziana e centrale, è stata continuamente distrutta dagli incendi. La Rivoluzione russa del 1917, la guerra russo-ucraina e l’occupazione bolscevica dell’Ucraina, hanno distrutto completamente la cultura della vita dei contadini e dei cittadini ucraini e tutto ciò che la rappresentava: mobili, stoviglie, reliquie famigliari. La nazionalizzazione bolscevica della proprietà privata ha tolto il diritto di possedere un terreno, una casa, un’attività commerciale, il che per decenni ha allontanato gli ucraini dai risultati del loro duro lavoro. Il progetto sovietico formava un nuovo tipo di persona: priva di storia, radici, identità e cultura organica, sottomessa alle esigenze ideologiche ed estetiche del regime totalitario.

Negli anni Trenta, conducendo una lotta contro la religione e l’identità ucraina, il regime comunista ha distrutto in Ucraina centinaia di chiese medievali e barocche e ha abbattuto senza pietà altri siti architettonici per costruirci al posto loro le nuove città socialiste. La collettivizzazione dell’agricoltura e l’Holodomor, lo sterminio per fame dei contadini ucraini, hanno cancellato milioni di vite. Le purghe staliniane hanno cancellato quasi tutta l’intellighenzia ucraina: scrittori, pittori, musicisti, registi, scienziati. La deportazione forzata degli ucraini in Siberia e dei tatari di Crimea nell’Asia centrale hanno troncato il legame della gente con la propria terra. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, intere città sono diventate ruderi e, al contrario delle città dell’Europa centrale, non sono state ricostruite secondo la loro immagine originale. Un gran numero di opere di artisti ucraini e intere collezioni dei musei sono state portate via dall’Ucraina e installate nei musei di Mosca e di San Pietroburgo. I grandi artisti ucraini di conseguenza sono diventati artisti russi, perché le colonie non possono e non devono avere un proprio pantheon culturale.

La guerra contro l’Ucraina oggi è una conseguenza quasi naturale della solita politica coloniale dell’Impero russo, poi dell’Unione Sovietica e ora della Russia di Putin. Questa guerra, come negli ultimi 350 anni, non si combatte solo al fronte. È una guerra contro la cultura e contro l’identità ucraina, la minaccia più grossa al progetto imperiale russo. La Russia nega l’esistenza dell’Ucraina, la sua diversità, originalità e appartenenza storica all’Europa. Prendere atto di questo aiuta a capire perché l’Ucraina non vuole arrendersi, perché non vuole cedere i territori né scendere a compromessi. Quando ti dicono: «Devi cessare di esistere», l’unica scelta che hai è combattere fino a vincere.

Per questi motivi la guerra è così spietata ed è così globale. Dopo l’ennesimo tentativo di sottomettere l’Ucraina, la Russia è arrivata alla triste conclusione che la sottomissione può avvenire solo attraverso la cancellazione di un popolo intero dalla faccia della terra, attraverso lo sterminio fisico delle persone e degli oggetti materiali della loro cultura. Solamente nella Mariupol’ distrutta, la decima città per numero di abitanti dell’Ucraina e una delle sue più grosse capitali culturali, l’esercito russo ha ucciso approssimativamente ventimila civili. Più di quattrocento siti culturali sono stati distrutti o danneggiati in tutto il territorio ucraino.

Tra questi, il ginnasio di Lysychans’k, che era parte del patrimonio architettonico belga della città, memore della sua storia industriale legata direttamente all’Europa Occidentale. I teatri drammatici di Mariupol’ e di Severodonec’k e la casa di cultura a Irpin’ sono eredità concettuale di Andrea Palladio e dei suoi edifici classici di Vicenza; la piazza (Majdan) della Costituzione a Kharkiv, la simbiosi di Art déco, Art nouveau, Stile eclettico e Impero, è un altro esempio di un legame forte tra l’architettura ucraina e quella europea.

La materialità, cioè lo spazio reale e dimensionale della cultura, è un forte e innegabile segno di appartenenza storica di un popolo alla propria terra, un testimone fedele della sua storia. Forse per questo motivo è così indispensabile per l’Ucraina e per gli ucraini. Proprio in questo spazio cresce la rete invisibile delle relazioni tra le persone, creando di conseguenza la matrice dell’esistenza di qualsiasi città, comunità e regione. Sono legati indissolubilmente e non possono esistere uno senza l’altro. Finché vivranno le persone, finché staranno in piedi le città da loro costruite, finché la cultura creata da loro sarà presente e nota nel mondo, noi saremo indistruttibili.

Da quando sono rientrato a Kyjiv mi piace passeggiare per le vie della capitale ancora quasi vuote e poi ogni volta ricevere un’ulteriore conferma che la città è rimasta in piedi e che non cadrà mai più. Quando le sirene antiaeree squarciano il cielo, guardo il ritratto di mia mamma, sfoglio i libri della mia biblioteca, mi immergo nei ricordi degli oggetti in casa mia. Anche le cianfrusaglie all’improvviso sono diventate preziosissime è in loro che cerco la sicurezza, che il domani ci sarà e che tutto andrà bene.

Una mia amica volontaria di Kharkiv porta gli aiuti umanitari e assiste i giornalisti nelle zone da poco liberate dall’occupazione russa. Per qualche motivo gli abitanti locali non la portano a vedere le case distrutte, ma con grande entusiasmo le mostrano le vigne sopravvissute al rogo. I genitori di un mio amico lo chiamano da Kherson arrabbiati: «Quando libereranno la nostra Kherson? Dobbiamo andare in campagna a sistemare il giardino!». Un’altra amica pensa al vestito indossato al primo appuntamento con un attivista kyjiviano giovane e bello. Lui si è arruolato ed è morto eroicamente a giugno, nell’est del Paese. Sono venute migliaia di persone al suo funerale nel centro di Kyjiv e non sono bastate le lacrime per consumare il dolore.

Due donne meravigliose, le direttrici dei musei di Kyjiv, si illuminano nei loro volti raccontandomi come hanno fatto evacuare in un posto sicuro le loro collezioni e niente le può consolare più delle pareti dei loro musei. Un’amico, rientrato a casa nella Irpin’ distrutta, guarda con preoccupazione il pezzo di missile caduto nella sua casa stranamente rimasta intatta. Per fortuna è l’unico oggetto estraneo entrato in casa sua assieme alla guerra. Una militante dei diritti umani, che ha superato con difficoltà l’assedio e i bombardamenti di Kyjiv, mette il rossetto rosso e si fa un selfie sorridente nel centro della città nei primi giorni di primavera. Un’altra amica, che per qualche motivo ha portato con sé fuori dall’Ucraina due grandi calici, ora ci versa un buon vino, ovviamente brindando «alla vittoria».

Le foto, le vigne, i quadri, le tombe, le chiese e le stazioni, i ritratti delle persone care, i vestiti, il raccolto, il rossetto rosso, i pezzi di missile, i calici con il vino, proprio con questi e con milioni di altri mattoni inestimabili ricostruiremo passo dopo passo le nostre case.

*Volodymyr Sheiko è organizzatore di vari progetti culturali in Ucraina e all’estero e il primo direttore dell’Ukrainian Institute, l’istituzione che dal 2018 promuove la cultura ucraina all’estero. Esperto di management culturale, marketing e comunicazioni, fino al 2018 è stato direttore dei programmi internazionali di cultura al British Council.