Una fioca speranzaIl caricabatterie universale non risolverà il problema dei rifiuti elettronici

Il Parlamento europeo ha da poco approvato una legge che obbliga i produttori a dotare i dispositivi elettronici messi in commercio di un’unica porta di ricarica. Per diminuire l'impatto ambientale, però, i nostri smartphone e pc dovrebbero essere programmati per durare. Su questo c’è ancora moltissimo lavoro da fare

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«Qualcuno ha il caricabatterie del (inserire modello di smartphone a scelta)?». Dal 2024 questo siparietto – che sarà per forza capitato a casa di amici o parenti almeno una volta – non si ripeterà più. Martedì 4 ottobre il Parlamento europeo ha approvato una nuova legge che obbliga i produttori a dotare i dispositivi elettronici messi in commercio di un’unica porta di ricarica, quella Usb-C (utilizzata ad oggi dai dispositivi Android, per intenderci). La direttiva del “cavetto unico”, proposta in primis dall’eurodeputato Alex Agius Saliba, del gruppo di centro-sinistra dei Socialisti e Democratici, ha ricevuto ampi consensi, passando in Parlamento con 602 voti favorevoli, 13 contrari e otto astenuti. Riguarderà smartphone, tablet, fotocamere, e-reader, cuffie, dispositivi satellitari, console di videogame e casse portatili: per i computer portatili bisognerà aspettare invece il 2026.

Secondo le stime della Commissione europea, uniformare la ricarica dei nostri dispositivi porterà ad una diminuzione di circa 12 milioni di rifiuti elettronici l’anno e ad un risparmio annuale – in termini economici – di 250 milioni per i consumatori. L’Ue ha valutato che i rifiuti elettronici sono la categoria di rifiuti che cresce più velocemente nel suo territorio e di cui si ricicla meno del 40 per cento: un grosso ostacolo agli sforzi messi in atto per ridurre l’impronta ecologica del continente.

Facendo ancora riferimento ai dati raccolti dalla Commissione, in media i consumatori possiedono circa tre caricabatterie per telefoni cellulari e ne usano due regolarmente, mentre quelli smaltiti e non utilizzati rappresentano fino a 11.000 tonnellate di rifiuti elettronici all’anno. «Ciononostante il 38 per cento dei consumatori ha dichiarato di aver incontrato difficoltà almeno una volta nel ricaricare il proprio telefono cellulare perché i caricabatterie disponibili erano incompatibili»

Insomma, fin qui tutto bene, anche perché sull’approvazione della porta di ricarica unica l’Europa lavorava praticamente da 10 anni. Ma ci sono almeno ancora un paio di aspetti che, senza rapidi interventi concreti, potrebbero presto spegnere (o almeno ridimensionare) gli entusiasmi. Partiamo dal primo.

È il 1932, e il mediatore immobiliare statunitense Bernard London propose l’introduzione di una legge che stabilisse una data di scadenza per tutti i prodotti di consumo, e non solo per quelli alimentari. In questo modo il consumatore sarebbe stato stimolato ad acquistare con più frequenza nuovi articoli, favorendo la rimessa in moto dell’economia Usa, fiaccata dalla Grande depressione. L’“obsolescenza pianificata”, come fu ribattezzata la strategia di London, fu studiata e analizzata in lungo e in largo, stimolando discussioni e perplessità che animano ancora oggi gli analisti – e il cui punto chiave è: esiste davvero o no?

Se ne riparlò in particolare nel 2013, anno in cui Apple presentò in contemporanea i suoi nuovi iPhone e iOS 7, l’ultima versione del suoi sistema operativo per cellulari. Dopo l’installazione del nuovo aggiornamento, molte persone – tra cui la giornalista economica Catherine Rampell, che ne scrisse un pezzo sul New York Times – lamentarono un rallentamento delle funzioni del proprio smartphone e un’autonomia della batteria molto più bassa.

Insomma, i vecchi iPhone non sembravano essere stati programmati per reggere oltre, proprio come il principio dell’obsolescenza prevede: il prodotto deve avere una precisa durata (limitata a pochi anni, massimo 3), anche se le potenzialità della “macchina” potrebbero garantirgli una maggiore sopravvivenza. Per alcuni analisti è piuttosto normale che sia così: le attuali tecnologie, di cui possiamo facilmente usufruire, in realtà presentano al proprio interno meccanismi piuttosto complessi e articolati, a fronte di un prezzo al pubblico (relativamente) basso e accessibile. Progettarle con una scadenza (riducendone nel tempo l’efficienza) significa garantire al mercato una certa sopravvivenza.

L’Unione europea sta cercando di muoversi anche in questo senso, ma al momento esiste solo una direttiva (una bozza in realtà) per aumentare il ciclo di vita degli smartphone venduti. Come? Le proposte contenute all’interno del documento vanno principalmente in due direzioni: migliore rendimento dei dispositivi elettronici e possibilità di ripararli più facilmente in caso di guasto. Come si legge su Wired, chi produce oggetti tecnologici dovrà prima di tutto fornire al consumatore un’etichetta energetica che indichi chiaramente «la durata del ciclo di vita del dispositivo e il livello di resistenza alle cadute». I produttori di telefoni cellulari dovranno invece «garantire pezzi di ricambio per almeno 15 componenti degli smartphone per almeno cinque anni dalla data di introduzione sul mercato», e «le batterie dovranno sopravvivere almeno 500 cariche complete senza deteriorarsi al di sotto dell’83 per cento della loro capacità di carica». Un intervento di questo tipo ridurrebbe, tra le altre cose, l’inquinamento ambientale, causato ad esempio proprio dallo smaltimento delle batterie e dal consumo energetico (per la produzione, ad esempio): se i cellulari durassero almeno 5 anni, e se la bozza diventasse legge, l’Ue potrebbe emettere fino a 10 milioni di tonnellate di CO2 in meno.

Poi, se potessimo sfruttare la riparazione per farli durare oltre, sarebbe ancora meglio. Ma anche su questo fronte c’è molto lavoro da fare. Secondo uno studio del 2018 condotto per conto della Commissione europea, il 77 per cento dei cittadini Ue vorrebbe acquistare prodotti più facilmente riparabili invece che doverne comprare di nuovi. Ma i costi elevati e la scarsa disponibilità dei servizi di riparazione (o l’accesso limitato ai componenti di ricambio) rendono spesso più conveniente optare per un nuovo dispositivo.

Quella per il diritto alla riparazione (o right to repair) è una lotta che va avanti da almeno 60 anni e su cui si è espresso anche Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti: «In troppi settori, se possiedi un prodotto, che sia uno smartphone o un trattore, non hai la libertà di scegliere come o dove riparare l’articolo che hai acquistato. Se qualcosa è rotto, devi andare dal rivenditore e pagare il loro prezzo. Se provi a ripararlo da solo, alcuni produttori annullano la garanzia».

È vero, in Europa a marzo del 2021 è entrata in vigore una legge (la prima in assoluto) proprio inerente a questo, che obbliga i produttori a garantire riparazioni per almeno dieci anni. La norma però riguarda “solo” frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie e televisori, per cui, in caso di malfunzionamento, il consumatore dovrebbe facilmente trovare riparazione (o essere facilitato nel fai-da-te) e pezzi di ricambio (i produttori dovranno continuare a produrre pezzi essenziali per quel modello per almeno 7-10 anni dall’immissione sul mercato).

Un diritto alla riparazione efficace, come ribadito anche dagli europarlamentari, dovrebbe coprire però il ciclo di vita di tutti i prodotti, a partire dalla loro progettazione, e fornendo un accesso gratuito alle informazioni riguardanti la riparazione e la manutenzione (o nel caso degli smartphone rendendo gli aggiornamenti delle applicazioni reversibili, affinché questi non comportino una diminuzione delle prestazioni). L’Ue ha promesso di lavorarci su, definendo il right to repair «un’iniziativa chiave per il 2022». Peccato che il 2022, però, stia per finire.

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