Nel XVIII secolo, per descrivere qualcosa di tanto orrendo da suscitare fascino, Edmund Burke teorizzò la categoria estetica del “sublime” per indicare quelle cose che, tanto brutali e orrende, terrificanti, finiscono per tracimare dal confine dell’orrido a quello del bello. La parola sublime ci può mostrare come la cosa più misera possa apparire maestosa. Così mi pare essere il Mekong nei pressi di Can Tho, una città da un milione di abitanti, nel sud del Vietnam, centro nevralgico della regione in cui il fiume più grande del sudest asiatico si dirama, spalancandosi come dita, per tuffarsi nel mar Cinese Meridionale.
L’acqua del Mekong, da queste parti, è bruna e solcata da detriti vegetali e relitti di immondizia. Lungo le coste si susseguono baraccopoli di legno e lamiere, costruite su palafitte che si spalancano sul fiume come attici che si affacciano sul Tamigi, sulla Senna o sul Tevere. Solo che le persone che vivono lì dentro non indossano scarpe né abiti firmati: le si può vedere sedute, con le gambe a penzoloni sul pelo dell’acqua, mentre si lavano i denti e sputano nel fiume.
Il paesaggio ritrae la potenza primitiva di una natura ancora dominante, fatta di onde, palme, flora galleggiante e alberi così tenaci da aver messo le radici nel letto del Mekong ed essere cresciuti, chissà come, fin oltre la superficie così che non è raro, solcando quelle acque, incontrare piante dai tronchi sottili che sbucano dal pelo dell’acqua piegandosi, senza mai spezzarsi. Ai bordi, la vita nelle palafitte prosegue placida nel fango, da decenni. Dalle baracche, uomini, donne e bambini utilizzano il Mekong come una discarica gettando nelle acque ogni cosa, senza pensieri o riguardi.
Alle 4.30 di mattina io e Paolo ci svegliamo nella camera del nostro ostello senza finestre (in queste zone avere una camera con un’apertura sul mondo è quasi un lusso) e inforchiamo il motorino sotto un monsone temporalesco che ci costringe a indossare gli impermeabili con il cappuccio stretto fino al naso. Raggiungiamo una banchina, sulla riva, dove il giorno prima abbiamo incontrato e preso accordi con Nhyu (spero si scriva così), una signora vietnamita di circa 45 anni, che ora troviamo infilata in un sacco della spazzatura giallo e trasparente, che usa come mantella. Insieme a lei abbiamo stabilito che per circa 10 euro a testa, Han, una sua parente, ci avrebbe accompagnati su una piccola imbarcazione fino al mercato galleggiante. Partiamo.
Han è una navigatrice esperta: si piazza a poppa, in piedi, e con le mani armeggia con due grossi remi mentre con un piede controlla la direzione del timone, attaccato a un motore che a ben guardare sembra più un tagliaerba. Siamo in balia delle onde prodotte dalle imbarcazioni più grandi di noi. Pipistrelli volano a pelo d’acqua nel crepuscolo mattutino. Lo fanno di fretta, per fuggire dal monsone che ci insegue, o sta davanti a noi, oppure dietro. Non si capisce ma sballottiamo per oltre mezz’ora, tenendoci ai giubbotti arancioni di salvataggio che ci danno sicurezza ma che ci certificano anche per quello che non vorremmo sembrare: goffi turisti occidentali.
Avanziamo fino a superare un grosso ponte sul quale c’è scritto “Cái Răng”: le porte del mercato galleggiante. Qui la rete di imbarcazioni si infittisce, navi minute dondolano vicino a imbarcazioni più grosse dalle quali i venditori e i compratori protendono le mani per acquistare cibarie, spezie, frutta ma, stranamente, non pesce. In barche sgangherate e simili a zattere, col tetto di lamiere, vivono i mercanti di tutto. Le loro navi galleggiano simili a relitti di legno scuro su cui si vendono ananas, durian, patate, cipolle, angurie, zucche ma anche vestiti. Gli scarti vengono gettati nel fiume, specialmente quelli delle verdure fatte a pezzi direttamente fuori dalla barca con dei coltellacci. Ci sono quasi solo vietnamiti che comprano anche 100 chilogrammi di merce per rivenderla sulla terraferma. È il mercato all’ingrosso, ma noi compriamo solo del caffè.
Indicando un canale più stretto, Han ci dice qualcosa che non capiamo e ci conduce ad esplorare un capillare del Mekong: attraversiamo lentamente una diramazione del fiume fangoso che via via si trasforma in un rigagnolo che si fa strada all’ombra di palme da cocco, sotto le palafitte fatiscenti. Immagino qui ambientate le foto che ho visto al museo della guerra, i vietcong immersi nella melma fino all’elmetto, che camminano sul fondo di un fiumiciattolo tenendo fuori solo il fucile.
Qui, l’afflato di Mekong che attraversiamo è brutalizzato da immondizia e sacchi di plastica che dobbiamo infrangere con la punta della nostra imbarcazione. Lo pneumatico infilato sulla prua a mo’ di polena sfonda un iceberg di polistirolo grande quanto un uomo, che galleggia alla deriva delle acque basse tra rami e scarti vegetali. Quando la plastica è arrivata in queste zone del mondo ha incontrato una popolazione rurale abituata ad avere a che fare solo con scarti organici. Le bucce delle arance, dei frutti, delle banane: tutto ciò che si buttava via lo si gettava nel fiume, o nei campi, e faceva bene all’ambiente. Diventava cibo per pesci o fertilizzante.
Abituati a scartare le bucce, ora i vietnamiti, ma anche i laotiani e i cambogiani gettano le confezioni delle merendine nel Mekong. Fanno lo stesso coi sacchetti non compostabili, le bottiglie d’acqua, ogni genere di confezione. Non è ancora passato abbastanza tempo perché le usanze contadine si abituassero a quelle industriali, ed è per questo che il Mekong è sublime, un luogo dove il ruggito primitivo della natura si contamina con gli scarti del sistema industriale.