“Archeologia” è il nuovo rock, non c’è niente da fare. L’attenzione diventa sempre più verticale, anziché orizzontale, per chiunque abbia una frequentazione sufficientemente lunga col mondo della musica. È più interessante capire i “come” e i “perché”, che i “che cosa dopo”. E s’ingrossa la galleria di rivisitazioni di famosi album del passato, arricchiti da un’impressionante quantità di materiali di grande interesse, almeno per i più ardenti fan dell’artista di turno. A seguire la recente sbronza beatlesiana con la riproposizione di “Revolver” versione deluxe, arriva adesso il momento di scavare in profondità in direzione di “Hunky Dory” (1971), il long playing che sancì la consacrazione di David Bowie, appena ventitreenne ma con alle spalle una robusta gavetta dall’andamento zigzagante. Il titolo del cofanetto è “Divine Simmetry” e prevede, a fronte di un robusto esborso, cinque cd, un libro di presentazione critica della consueta qualità e la copia anastatica di un taccuino su cui il giovane David appuntava idee, soprattutto visive, schizzava abiti di scena ed elencava possibili titoli per le sue nuove canzoni.
Ovviamente l’insidia di un lavoro postumo del genere era che andasse a ingrossare la procedura di santificazione che da anni circonda l’artista inglese e a cui ha dato un contributo esagerato il recente doc “Moonage Daydream” di Brett Morgen, teso a restituire una sperticata descrizione divistica di Bowie, impeccabile nella sua natura semi-divina.
“Divine Simmetry”, invece, procede in direzione opposta, permettendo l’accesso agli incerti e a tratti balbettanti passi d’avvicinamento di David al capolavoro, mettendo a nudo le debolezze e le sue incapacità – strumentali, ad esempio –, il suo bisogno del conforto di collaboratori lucidi (mai abbastanza verrà sottolineato il contributo al perfezionamento delle sue intenzioni del bandleader degli Spiders from Mars, Mick Ronson), non nascondendo le periodiche sbandate in fase di scrittura, allorché Bowie lasciava che l’ultimo ascolto di successo imponesse una certa impronta alla sua modalità compositiva. La realtà è che the making of David Bowie è stato un procedimento lungo e difficoltoso e per parecchio tempo la sua voglia di farcela ha surclassato la chiarezza del progetto.
«A qualunque costo» sembrava essere lo slogan con cui David saziava la propria fame di affermazione, sospinto da una strana nevrosi: la congiunzione tra la radicata convinzione d’essere nato per quello e di avere il famoso x-factor e il quotidiano manifestarsi di una straordinaria, isterica insicurezza. Ebbene, qui siamo al passaggio decisivo. Fino ad allora critica e pubblico davano l’impressione di non prendere Bowie troppo sul serio, ormai avvezzi ai suoi repentini cambi di bandiera che lo facevano passare dal presentarsi come un dandy mod al trasformarsi in hippie in odore di misticismo, o nel maestro di cerimonie di una setta di artisti esoterici.
Del resto c’era così tanto in circolo in quel momento, tanto da guardare e da ascoltare, che stava rivoluzionando il mondo della musica, mentre i suoi album – tre: nel ‘67, ‘69 e ‘70 – fino a quel momento si erano rivelati altrettanti fiaschi e di lui si scriveva che fosse un tipo che poteva azzeccare un buon singolo, ma di certo non destinato a entrare nella storia. Come sapevano invece fare Bob Dylan o Lou Reed, a cui David guardava con invidia, nel tentativo di coglierne l’alchimia, salvo essere distratto da altri echi, da Elton John a Marc Bolan, da Scott Walker perfino a Gilbert O’Sullivan, di cui assorbiva frammenti e peculiarità che riversava nelle nuove composizioni.
Bowie, in quel momento era una formidabile spugna, capace di accumulare nel repertorio un’impressionante quantità di brani, mentre si andava definendo e raffinando rapidamente la sua capacità di giudizio. Questo infatti – “Divine Symmetry” aiuta a comprenderlo – è uno dei segreti di Bowie: la sua prolificità e il veloce maturare del suo senso di autocritica, che presto lo indirizzerà verso le scelte giuste.
“Hunky Dory” è un capolavoro per come sintetizza un romanticismo al limite del melò (il pianismo di Rick Wakeman di “Life on Mars”, gli arrangiamenti scritti da Ronson), con uno sperimentalismo sottile e affine allo spirito artistico extra-musicale di quegli stessi anni, con una serie di performance vocale strabilianti e una scaletta che ha pochi rivali nella storia del lungo formato discografico (pensare che al tempo dell’edificazione di “Hunky Dory” sotto la guida produttiva di Ken Scott, Bowie aveva già scritto buona parte del materiale che, solo pochi mesi più tardi, avrebbe dato vita a “The Rise and Fall of Ziggy Stardust”, disco seminale dell’intera storia del rock).
Le cronache raccontano che all’origine della definitiva focalizzazione di Bowie sulla propria temperie artistica ci sia un salvifico viaggio negli Stati Uniti, dove avrebbe visto, ascoltato e capito, e dove si sarebbe liberato di alcune scorie che oggi classificheremmo di provincialismo. A quel punto, messi da parte i tremori, Bowie rinuncia all’idea di fare solo l’autore di canzoni per altri artisti e mette a punto un’evoluzione del look che ribalta le regole estetiche stantie di quel momento musicale, per poi decollare come un missile.
Questo cofanetto racconta con sbalorditiva nitidezza cosa si muoveva attorno a questo decollo: lo si intuisce ascoltando i tremolanti demotape di brani che sarebbero divenuti sontuosi nell’album, ma anche godendosi il live a Friars Aylesbury, un localetto di una cittadina remota, dove David procede a spogliarsi delle vecchie vesti psichedeliche («forse si esibirà in abiti femminili», strillava la pruriginosa pubblicità del concerto) per assumere la sua identità finale di autore/artista. Ormai ha imparato la lezione, niente può fermarlo e quella sudata padronanza che ha assimilato nei confronti del mondo musicale non lo abbandonerà mai più.
Questa partenza faticosa, la sua onnipresente paura del fallimento sono oggi, a parabola conclusa, alcune delle cifre più interessanti nella vicenda di Bowie e nella ricostruzione della sua meticolosa edificazione del mito. Ma se siete solo in cerca di divertenti spigolature, sentitevi la sublime versione “integrale” di “Life On Mars”: peccato che nelle note finali del crescendo, si metta a squillare il telefono dello studio, mandando a ramengo la registrazione. Le bestemmie pronunciate a quel punto da Mick Ronson stanno là a ricordarci che questo resta pur sempre rock’n’roll, terra di avventurieri.