Con una tecnica di marketing e di nutrimento del mito che sfiora il prodigioso, si è trovato il modo di rendere eterni non solo il culto, ma perfino un rinnovato consumo dei Beatles – intesi come l’insuperato, e a questo punto inesauribile fenomeno musicale della modernità – rigenerandone il valore divistico e la stardom sotto forma niente meno che di archeologia!
Dopo le prove generali realizzate con le riedizioni “critiche” di “Sgt. Pepper”, dell’“Album Bianco” e di “Abbey Road”, all’incirca un anno fa è stata la prodigiosa esperienza audio-visuale prodotta da Peter Jackson con “Get Back” a definire la misura definitiva e l’impatto di questa pratica, trasformando i Beatles in un’esperienza a sé stante, con parametri di tempo, spazio e percezione sospesi e particolari, fin qui mai tentati con altri artisti, sia pure di calibro paragonabile ai Fab Four.
L’offerta, che va oltre il voyeurismo, sfida attimi di masochismo, è intinta di gossip e soprattutto conferma la natura semi-divina di questa musica, consiste nell’immersione totale nella sua creazione, nell’ascolto puntiglioso di tutte le fasi dell’ideazione, dell’allestimento, della discussione e soprattutto della cooperazione tra i musicisti – segreto primario di questo trust di strani cervelli.
Non a caso “Get Back”, dai seguaci, dagli appassionati, dai fans, ma anche da molti semplici curiosi viene spesso descritta come un esperimento inedito e mai tentato prima, capace come nessun’altro di accostarti alla personalità degli artisti, permettendoti di penetrare nel loro laboratorio delle magie.
E ora tutto ciò torna a prendere vita col capitolo “Revolver”, il prodigioso album del ’66 spesso identificato come capolavoro assoluto beatlesiano e comunque come l’album della maturità, quello in cui, appunto, proprio il concetto di “album” inteso come opera unitaria, al tempo stesso varia e piena di suggestioni, assumeva definitivamente forma compiuta.
I Beatles del ’66 sono quelli che decidono di abdicare dall’ormai impossibile attività live, quelli che si stanno calando nell’esperienza psichedelica, quelli che non mettono limiti alla loro esplorazione delle droghe come fattore culturale e edonistico, ma anche come amplificatore degli orizzonti della loro creatività. I Beatles del ’66 sono ormai personalità internazionali, maestri di stile, giocolieri del linguaggio, disposti perfino a rischiare la scomunica americana spiegando ai bifolchi che ormai il loro campionato (vincente) era quello in cui giocava Gesù Cristo.
Ma erano anche i musicisti ormai maturi, sempre più curiosi delle possibilità di postproduzione, ovvero delle soluzioni generate dalle tecniche da studio di registrazione, soprattutto attraverso l’applicazione dei loro metodi empirici e autodidatti alle possibilità offerte da una tecnologia che cominciava a correre.
Due mesi abbondanti a Abbey Road, dopo un rinfrancante periodo di vacanze e in un momento di reciproca empatia che presto si sarebbe rarefatta, permettono ai Beatles di dar vita al capolavoro a cui, 56 anni più tardi, delle tecnologie ben diverse permettono di guardar dentro come mai sarebbe stato possibile immaginare.
Il box Deluxe di “Revolver” appena immesso sul mercato prevede cinque dischi (cd o vinili), accompagnati da un magnifico libro con saggi e interventi di Questlove, Klaus Voormann e tanti altri, foto eccezionali e note di produzione maniacali. E soprattutto ripropone in versione solo audio (non esistono immagini video delle registrazioni del disco) l’offerta di “Get Back”: i demotape, le sessions, le prove, le variazioni, le divagazioni, le versioni alternative di ciascuno dei 14 pezzi dell’album, in una successione ipnotica, stordente, appassionante e ancora una volta – proprio come col sesso – tremendamente sexy.
L’apice virtuosistico del tutto è la versione rimixata del disco, curata da Giles Martin – figlio del George che fu producer e precettore musicale dei Beatles – il quale, riattivando le tecniche spaziali (“digitali” ci sembra poco) messe a punto dal team neozelandese che ha supportato Jackson per “Get Back”, ha potuto vivisezionare le registrazioni originali dell’album, a suo tempo effettuate su un recorder a quattro tracce su cui gli strumenti erano compresenti nelle medesime tracce. Riuscendo a separare i singoli contributi strumentali (perfino i diversi pezzi della batteria di Ringo), e elaborando così un missaggio interamente nuovo dell’album – operazione condotta da Martin con straordinario rispetto e in assenza di pirotecnie kitsch (ovviamente tanto più ricco e costoso sarà il vostro impianto ad alta fedeltà, maggiore sarà il godimento, giustificando finalmente la spesa spropositata che vi siete concessi).
Il resto è meraviglia beatlesiana, su cui ovviamente non è necessario spendere osservazioni critiche: la scaletta è terrificante, il livello on the toppermost, i quattro ragazzi di Liverpool, in quel momento due 25enni e due 23enni, paragonabili a eternauti a passeggio nei crateri di un pianeta sconosciuto. Dal quale evidentemente misteriosi effluvi inebrianti stavano solleticando i loro eccitabili cervelli, trasformandoli in una carovana colorata, non è chiaro se composta da scienziati pazzi o da buffoni geniali.