Il principio della salsiccia dice che se c’è qualcosa di buono o di bello è meglio non sapere com’è fatto. Di solito si applica alle leggi e alla politica: meglio non investigare cosa c’è dietro accordi, compromessi e strette di mano. Vale anche per il mondo del calcio, per la Fifa, le triangolazioni tra i suoi funzionari.
A lungo tifosi e semplici spettatori hanno fatto finta di niente, hanno scelto di non dare peso agli scandali che riguardavano il governo del pallone – cioè di uno sport seguito con trasporto trascendentale, mistico, religioso – anche quando erano al centro delle cronache e delle indagini giudiziarie. In fondo, se il piatto è buono meglio non fare troppe domande.
L’inizio dei Mondiali in Qatar però ha cambiato ogni prospettiva. Le oscenità in serie girate sui social e poi sui giornali hanno ridimensionato l’interesse per l’evento calcistico più importante di tutti, seppellendo sotto una montagna di marciume, corruzione e morti impunite la bellezza sportiva della competizione.
Il Qatar ha programmato questi Mondiali per quasi due decenni, e comunque non è riuscita a offrire un’organizzazione paragonabile alle edizioni precedenti. La Fifa invece sembra arrivata alla chiusura di un cerchio, al termine di un percorso e un declino – politico, ma anche morale e umano – decisamente più antico.
«Se vuoi gestire la Fifa con un codice etico, allora buona fortuna», suggerisce Jérôme Valcke, ex segretario generale Fifa, nelle scene finali della docuserie Netflix “Fifa: Tutte le rivelazioni”. In quattro episodi, la serie pubblicata poco prima dell’inizio dei Mondiali dipinge un quadro affascinante e scoraggiante: quattro ore di interviste a giornalisti, ex funzionari Fifa, agenti sportivi, forze dell’ordine e persone coinvolte nelle indagini sono una miscela di trasgressione e ripugnanza che rendono il racconto di una storia calcistica una serie sulla perversione criminale del potere, sull’inevitabilità del male. «Non sono sicuro che sia possibile seguire un codice etico», dice Valcke in un misto di sicumera e inconsolabile accettazione.
Per decenni la Fifa era stata solo un’ente dedito all’organizzazione dei tornei, con una visione puramente idealistica di un calcio senza scopo di lucro e l’obiettivo ultimo di portare in tutto il mondo the beautiful game.
Nel 1974 João Havelange diventa presidente. È l’anno in cui sbiadisce l’idea romantica dietro l’organo di governo del calcio mondiale: la campagna elettorale dell’ex nuotatore brasiliano è ambiziosa, parla di un calcio globale diffuso in maniera capillare, una bandierina in ogni centimetro del planisfero.
Politicamente è una strategia geniale. In un sistema in cui ogni federazione nazionale vale uno, le organizzazioni continentali del Nord America (Concacaf) e dell’Africa (Caf) hanno un peso elettorale enorme pur avendo mercati marginali rispetto al movimento calcistico mondiale: bisogna convincere i vertici di quelle federazioni per garantirsi la continuità al trono.
Il successo di Havelange inizia proprio con le buste di contanti da distribuire ai presidenti delle federazioni a cui deve chiedere voti: è il momento della storia in cui la corruzione nella Fifa si trasforma in un elemento sistemico, il pilastro su cui poggia l’architrave del potere.
Una visione che non può concretizzarsi con le scarse risorse di un’organizzazione che fino a quel momento era paragonabile a una Onu del calcio: il calcio fine a se stesso deve morire, sostituito da una visione del gioco come prodotto, merce da vendere al miglior offerente.
Il volto e la mente dietro questa trasformazione sono di uno svizzero nativo di Visp, settemila anime tra le valli del Canton Vallese, un uomo innamorato del calcio che non vede l’ora di avere un ruolo in questa storia. Sono i primi passi nella costruzione di un impero che poi Sepp Blatter avrebbe governato per molti anni.
L’idea è rivoluzionaria eppure semplicissima: servono sponsor. Il primo è Coca Cola, che nel 1976 diventa partner nei progetti calcistici destinati ai giovani. «Due grandi organizzazioni potevano e dovevano lavorare insieme», pensa Blatter. Serve un fornitore di attrezzature sportive e il secondo brand a stringere mani e firmare contratti è adidas. Ne seguiranno altri, Phillips, Canon, Gillette. Se c’è una ricompensa, i Mondiali li può organizzare chiunque: Havelange appoggia la candidatura dell’Argentina per la Coppa del Mondo del 1978; significa fare il gioco di Videla e di tutta la giunta militare, ma nell’ottica del calcio come prodotto passa tutto in secondo piano.
Possono sembrare storie di un passato più cupo del presente, in realtà è tutto ancora in piedi, come se certi principi fossero scolpiti nella pietra: domenica scorsa l’attuale presidente della Fifa, Gianni Infatino – purtroppo rimasto fuori dalla docuserie Netflix, ma è uno che in questi anni ha stretto la mano di Vladimir Putin e degli sceicchi qatarioti – ha detto che tutti possono ospitare i Mondiali, anche la Corea del Nord.
La chiave di volta di “Fifa: Tutte le rivelazioni” è nel terzo episodio, quello che racconta sia le accuse di corruzione dei membri della Fifa per mano del Qatar, sia l’intersezione tra interessi del calcio e della geopolitica che ha portato Blatter ad annunciare con un po’ di scoramento l’assegnazione dei Mondiali al piccolo emirato del Golfo.
L’informatore Phaedra Almajid, responsabile capo delle relazioni con i media internazionali della Fifa, rivela di aver assistito al pagamento di tangenti in cambio del voto per assegnare i Mondiali al Qatar. Hassan Al Thawadi, segretario generale del Comitato Supremo incaricato della Coppa del Mondo 2022, avrebbe offerto denaro ai delegati del Camerun (Issa Hayatou), della Costa d’Avorio (Jacques Anouma) e della Nigeria (Amos Adamu) per assicurarsi il loro voto.
Lo scandalo sembra così più vero e più crudele in questi giorni in cui i migliori giocatori del mondo vanno in campo negli stadi in mezzo al deserto, tra tifosi finti e una generale sensazione «che sia tutto finto, molto, molto finto», come ha detto a Linkiesta un agente di calciatori – che preferisce rimanere anonimo – sbarcato in Qatar due giorni prima della partita inaugurale.
L’inchiesta dell’Fbi ha portato, nel 2015, a quarantasette capi d’accusa tra cui associazione a delinquere, frode telematica e riciclaggio di denaro; all’arresto di sette massimi dirigenti; quattro membri del Comitato esecutivo indagati; le dimissioni di Sepp Blatter. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti – che ha coordinato le indagini con l’Fbi – l’aveva definita come una fitta rete di corruzioni concatenate che avrebbe influenzato accordi di marketing, diritti tv e appunto l’assegnazione dei Mondiali, per cifre che si contano nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari, in un periodo lungo circa due decenni.