L’Iran fuori dai Mondiali di calcio. Questa voce aveva preso a circolare negli scorsi giorni, dopo la diffusione di un appello alla Fifa firmato da 149 attivisti iraniani. Le ragioni, a ben vedere, ci sarebbero tutte, e non c’è forse neppure bisogno di ribadire i dati sulla repressione del regime degli Ayatollah contro le proteste popolari iniziate con l’omicidio di Mahsa Amini, ormai più di un mese fa.
Lunedì, Xavier Jacobelli si chiedeva sulle pagine del Corriere dello Sport se 144 morti e oltre dodicimila arresti non fossero sufficienti per andare incontro alle richieste degli attivisti, che nella loro opposizione al governo di Teheran sono stati appoggiati anche da numerosi noti calciatori ed ex-calciatori iraniani, da Ali Daei a Sardar Azmoun, solo per citare i più noti.
Eppure da Zurigo tutto tace, e all’infuori di quella lettera e delle riflessioni di alcuni giornalisti nessuno nel mondo del calcio sta seriamente discutendo di escludere l’Iran dalla Coppa del Mondo.
Una situazione abbastanza curiosa, visto che solo pochi mesi fa l’atteggiamento dell’industria calcistica era diametralmente opposto, quando si era trattato di estromettere la Russia dagli imminenti playoff di qualificazione al torneo.
Due casi simili eppure distanti. La principale differenza è che ormai manca meno di un mese ai Mondiali, e che un cambio a questo punto sarebbe molto complicato: escludere l’Iran vorrebbe dire ripescare una squadra precedentemente eliminata, che però avrebbe pochissimo tempo per organizzare la propria spedizione, risultando logicamente penalizzata. Il secondo motivo è che probabilmente il Qatar non sarebbe d’accordo, vista la sua importante vicinanza politica a Teheran e il fatto che, a norma di regolamento, l’eventuale esclusione comporterebbe il probabile ripescaggio degli Emirati Arabi, con cui Doha non è in ottimi rapporti.
Ma nonostante questo, il confronto con il caso russo non può non porre una riflessione. Nicola Sbetti, storico dello sport presso l’Università di Bologna, ha scritto che ciò che distingue la situazione dell’Iran è la mancanza di «una massa critica di Paesi che si rifiutano di giocarci contro».
Quando la Russia invase l’Ucraina, a fine febbraio scorso, immediatamente Polonia, Svezia e Repubblica Ceca dichiararono la propria contrarietà a disputare il turno dei playoff di qualificazione ai Mondiali, che si sarebbe giocato di lì a un mese circa, contro la Russia. Fino a quel momento, Fifa e Uefa avevano cercato di risolvere diplomaticamente la questione, facendo gareggiare la Russia senza poter esibire simboli nazionali, ma questo tipo di opposizione – seguita presto da quelle di Inghilterra e Galles – minacciava di fare saltare l’intero Mondiale, e costrinse il governo del calcio globale a prendere una decisione drastica.
Nulla di tutto ciò è avvenuto nel caso dell’Iran, e questo è un problema essenzialmente europeo. Perché sebbene i Mondiali si disputino in Medio Oriente e l’Iran sia una nazione asiatica, con una squadra di calcio affiliata all’Asian Football Confederation, il calcio è e resta – anche se spesso ce ne dimentichiamo – un dominio strettamente europeo, forse l’unico rimasto al mondo.
La Fifa è un organismo mondiale ma ha sede in Europa, e nei suoi 118 anni di storia ha eletto praticamente solo presidenti europei (unica eccezione: João Havelange, brasiliano ma figlio di due immigrati belgi). L’assenza di una massa critica contro la presenza dell’Iran alla Coppa del Mondo rispecchia l’atteggiamento eurocentrico del sistema-calcio globale, per cui le violenze di Teheran che quotidianamente ci vengono raccontate dai nostri media sono percepite come più distanti e irrilevanti rispetto alla guerra in Ucraina.
Così si determina questo curioso paradosso: la dovuta intransigenza nei confronti di una nazione come la Russia – con la quale fino a pochi mesi fa tanti Paesi occidentali intrattenevano rapporti commerciali – non trova un atteggiamento equiparabile nei confronti di quello che da circa quarant’anni viene considerato uno dei grandi nemici dell’Occidente.
A ulteriore riprova della contraddittorietà di questa situazione sul piano politico, c’è il fatto che proprio l’Iran fornisce droni militari alla Russia, un particolare che lo rende di fatto parte in causa nel conflitto in Ucraina, seppur con un grado diverso di responsabilità rispetto a Mosca.
Eppure, lo scorso marzo non è stata solo la Russia a venire esclusa dai Mondiali di calcio, ma anche la Bielorussia, sebbene abbia fatto meno notizia: una conferma del fatto che, a livello teorico, le ragioni per fare lo stesso con l’Iran ci sarebbero state, probabilmente anche senza che il regime degli Ayatollah si mettesse a massacrare i manifestanti. Minsk è stata l’unica altra federazione bandita dalla competizione: gli altri Paesi vicini alla Russia, a partire dalla Cina, non hanno subito alcuna contromisura da parte della Fifa, e ovviamente stiamo parlando di nazioni non europee.
Così, il Team Melli non troverà alcun ostacolo alla sua partecipazione ai Mondiali in Qatar, grazie al più potente dei suoi alleati: l’indifferenza della politica europea, almeno di quella del pallone (anche se forse bisognerebbe iniziare a considerare la Fifa qualcosa di più di un’associazione sportiva: con 211 federazioni affiliate, conta più membri dell’Onu).
Sarà curioso assistere, tra qualche settimana, alle partite dell’Iran, che nel suo girone si troverà ad affrontare uno dei suoi più acerrimi rivali geopolitici – gli Stati Uniti – ma anche Inghilterra e Galles. Cioè due delle federazioni che hanno spinto la Fifa a escludere la Russia (l’Inghilterra è anche una delle nazionali che maggiormente ha discusso la questione delle violazioni dei diritti umani in Qatar), ma che finora sono rimaste in silenzio davanti a quanto sta avvenendo a Teheran.