E così adesso abbiamo anche Giorgia. Che va ad aggiungersi al sempiterno Silvio, a Enrico (finché dura), a Carlo (se dura), ai due Mattei che vanno e vengono, a Ignazio e insomma a tutta la simpatica combriccola con cui siamo tanto in intimità. Era stata lei stessa a incoraggiare, nel celebre comizio poi divenuto tormentone e infine titolo e sottotitolo della sua biografia-manifesto bestseller: “Io sono Giorgia”, con quel che segue (“Sono una donna. Sono una madre. Sono cristiana”), e con l’inevitabile piccata reazione della Giorgia primigenia, la cantante, che per colpa sua ha perso il monopolio della riconoscibilità col solo nome di battesimo.
Questa consuetudine di poter prescindere dal cognome era storicamente, oltreché dei regnanti e dei papi (e di chi porta nomi rari, come Vasco o Lapo), una prerogativa di calciatori e musicisti brasiliani, noti infatti con i loro nomi di battesimo, nomignoli, soprannomi. Da noi è arrivata più di recente. Essenzialmente sui giornali (anche se poi il contagio tende fatalmente a diffondersi). Essenzialmente per ragioni giornalistiche (ragioni?).
Nella sua forma generale, la ragione, caratteristica del polveroso benpensantismo retorico nostrano, è che occorre a tutti i costi evitare le ripetizioni. Una prescrizione felicemente ignota all’estero, dove per esempio gli adepti del salotto parigino di Gertrude Stein, tra i quali un certo Ernest Hemingway, ne hanno fatto una cifra stilistica e la loro fortuna; ma scrupolosamente osservata e fatta osservare in questo nostro paese allergico alle regole, eternamente allievo della maestrina dalla penna rossa. Con la conseguenza di dover infarcire il testo come un Big Mac con sinonimi, metonimie, sineddochi, antonomasie, circonlocuzioni che a volte sfiorano il ridicolo.
Atteniamoci al caso particolare dei testi giornalistici. Se per esempio, in un articolo, si è appena citato – poniamo – Dante Alighieri, nello stesso periodo, due righe dopo, si sarà costretti a scrivere “il Sommo Poeta”, o anche soltanto “il Poeta” (preferibilmente con la maiuscola), e un po’ più avanti “il Vate”, “il ghibellin fuggiasco” (anche se come è noto Dante non era ghibellino ma guelfo bianco), “l’autore della Divina Commedia”, “il padre della lingua italiana”: perifrasi che peraltro non aggiungono alcuna informazione, dal momento che si limitano a riportare il risaputo. In altri casi, per non ripetere il nome di un letterato, ci si potrà accortamente giostrare tra i sostantivi “scrittore”, “romanziere”, “narratore”, “autore”, “l’autore di…”. Vasta gamma di opportunità per i giornalisti sportivi: chi stesse scrivendo un pezzo su Cristiano Ronaldo, oltre che sulla sigla Cr7, potrebbe contare su “l’attaccante”, “il portoghese”, “l’ex juventino”, “l’ex madridista”, “il cinque volte Pallone d’oro”.
Quel che vale per i temini in classe e per gli articoli, a maggior ragione – e in questo caso con qualche ragione in più – vale per i titoli di giornale. In una stessa pagina, o in due pagine che “si guardano”, e men che meno nella stessa titolazione, non dovrebbe mai comparire due volte la stessa parola, tanto più se contrassegnata dall’iniziale maiuscola in quanto si tratta di un cognome. È una semplice considerazione di psicologia della percezione, perché, per esempio, due o più “Meloni” nel medesimo campo visivo finirebbero col depotenziarsi, attutendo il loro impatto sull’attenzione del lettore.
Il problema non si poneva fino a qualche tempo fa, quando la Meloni (ripetizione voluta) era soltanto la leader di un partitino di imprevedibile avvenire, che quindi raramente originava più di una notizia al giorno. Ma da quando il partitino è diventato il primo partito d’Italia e la sua leader prima donna presidente del Consiglio, le notizie si sono moltiplicate: nella stessa pagina la possiamo ritrovare impegnata in una visita all’estero, in procinto di varare una manovra economica, chiamata in causa in un commento. Ed ecco che nei titoli per forza di cose si fa avanti “Giorgia”, portandosi in dote un’aura di confidenza, quasi di familiarità, che indipendentemente dalle opinioni politiche a molti risulta indigesta. Specialmente quando si tratta della famiglia allargata e un tantino patriarcale in cui battibeccano da anni Silvio e Giuseppi e Beppe e i due Mattei (i due Marii no: intanto perché non battibeccavano, e poi perché quando uno dei due veniva evocato con il nome di battesimo era regolarmente SuperMario), e nella quale da un po’ non sono più di casa Umberto, Clemente, Massimo altrimenti detto Líder Máximo, Achille detto Akel, Walter detto Uòlter e qualche altro antico sodale.
Perché, però, in tempi più lontani non avevano formato una famiglia Amintore, Flaminio, Enrico, Aldo, Pietro ecc.? Soltanto, in tempi intermedi, avevamo avuto sentore della famigliola di Bettino, Ciriaco (i cui nomi peraltro si prestavano eccellentemente a identificarli) e Giulio (nella forma “il divo Giulio”). La risposta chiama in causa un fenomeno squisitamente autolesionistico che data più o meno dall’inizio degli anni Novanta: la dilatazione degli spazi giornalistici dedicati alla politica, coincidente con la crescente disaffezione del pubblico, periodicamente confermata dal calo dell’affluenza alle urne elettorali. Mentre un tempo questo genere di informazione era limitato a poche pagine – il “pastone” che dava conto dell’intera giornata politica, più qualche articolo e un eventuale commento –, negli ultimi trent’anni si è assistito a una superfetazione di articoli, interviste, commenti, box che riportano con ossessiva ripetitività (a volte anche contraddicendosi) notizie, notiziole, gossip, retroscena, ricostruzioni relative allo stesso argomento, con i medesimi protagonisti, che quindi devono risaltare nella titolazione. E affinché la ripetitività dei contenuti non generi ripetizioni nei titoli, la Meloni diventa Giorgia e i deuteragonisti di volta in volta emergenti nel teatrino politico ne seguono il destino onomastico.
Ma il teatrino diventa internazionale quando qualche notizia dall’estero attira l’attenzione e conquista una o più pagine: e così ecco sfilare davanti a noi Vladimir, Joe, Boris, Ursula, Angela, Marine. Olaf (Scholz) ancora no, e questo pesa come un macigno sulla considerazione del suo grado attuale di incisività. Emmanuel stranamente no, forse perché troppo lungo; in compenso la moglie, quando capita di citarla, è tout simplement Brigitte. In genere accade alle mogli celebri, anche quando sulla scena pubblica, per i motivi più disparati, sono qualcosa di più che semplici mogli: Hillary, Michelle, Melania, Megan, Kate. E quando dalla politica si passa agli spettacoli veri e propri o alla cronaca rosa, il solo nome di battesimo spesso non è neppure motivato dall’esigenza di evitare le ripetizioni: qualche giorno fa la foto di copertina della Stampa aveva nel titolo “Julia” e solo nell’occhiello “Roberts”.
Insomma, quanti amici insospettati abbiamo in giro… (nel mondo anglosassone, quando si usa il nome anziché il cognome, vuol dire che si è passati a darsi del tu). Peccato che, di tanta familiarità, come nel verso di Bernardo di Cluny parafrasato da Eco nella chiusa del suo romanzo più celebre, soltanto nomina nuda tenemus. Ma in qualche caso non è neppure un male.