Questo viaggio ha origine, prima che a Cape Town, all’Università di Padova, in una teca esposta nella Sala dedicata ai cambiamenti climatici del Museo di Geografia: in essa è conservato il manoscritto autografo della voce Clima redatto per l’Enciclopedia Treccani degli anni Venti da Luigi De Marchi, geografo fisico e meteorologo in cattedra all’Università dal 1904. Fu lui il primo a proporre – e a presiedere negli anni Venti del Novecento – la prima Commissione scientifica internazionale per lo studio dei cambiamenti climatici in epoca storica, antesignana dell’attuale IPCC – Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico istituito dalla Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente nel 1988.
All’epoca di De Marchi si sapeva davvero poco sulle cause delle variazioni del clima: si era consapevoli da secoli della loro esistenza, si studiavano già da qualche decennio le fluttuazioni glaciali, con misure frontali sui più importanti ghiacciai alpini; iniziavano a diffondersi stazioni meteorologiche per registrare con regolarità valori di temperatura, pressione e precipitazioni in diversi luoghi della Terra. Ma gli scienziati allora erano profondamente divisi sulle forzanti all’origine dei mutamenti climatici: c’era chi – come il nostro De Marchi – attribuiva un ruolo prevalente al vapore acqueo atmosferico, chi invece – come lo svedese Svante August Arrhenius, premio Nobel per la Chimica nel 1903 – intuiva già allora il ruolo decisivo dell’anidride carbonica nel suo primo modello climatico globale.
A un secolo di distanza, i passi avanti dal punto di vista scientifico sono stati enormi, e sulle cause del riscaldamento globale ormai da tempo le certezze superano di gran lunga i dubbi: non solo sappiamo con sicurezza che il global warming è prevalentemente effetto dei gas serra prodotti dalle attività umane, ma siamo in grado con ragionevole precisione di prevederne gli effetti e gli scenari nei prossimi decenni.
La scienza ha fatto passi da gigante grazie a monitoraggi, analisi, previsioni sempre più affidabili e precise, producendo migliaia di articoli verificati dalla comunità scientifica internazionale. Quello che ancora manca è passare dalla conoscenza alla consapevolezza, e dalla consapevolezza ad un’azione efficace: tradurre insomma nella pratica questo enorme bagaglio di studi per salvaguardare non tanto e non solo gli equilibri del pianeta, ma noi stessi. Siamo agli inizi di una grande sfida e di un’auspicabile inversione di rotta in quella che ormai è diventata la “nostra” era geologica: l’Antropocene.
Ma per poter dire di essere davvero “entrati” nell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano con le sue attività è riuscito a incidere in maniera determinante e spesso deleteria sugli equilibri planetari, è necessario passare dalla sua definizione scientifica a una presa di coscienza collettiva del significato e delle sfide che essa ci impone. È lo scopo principale di questo libro: un “giro del mondo” che ci proietta nell’Antropocene del futuro rileggendo il nostro passato, che evidenzia la dimensione globale del problema a partire da tante situazioni locali.
Il cambiamento climatico è un problema globale che per essere affrontato richiede una democrazia globale, ovvero la capacità di gestire in maniera coordinata a livello planetario le nostre azioni, coinvolgendo davvero tutti per un’azione che possa dirsi realmente efficace. Da Padova, la stessa città da cui è partita l’idea di un gruppo di ricerca internazionale sui cambiamenti climatici ormai un secolo fa, parte dunque una nuova sfida: contribuire a trasformare la conoscenza in consapevolezza, mettere al corrente di un pubblico non solo di esperti o specialisti le evidenze scientifiche di decenni di studi e le relative conseguenze, con linguaggi diversi in grado di avvicinare mondo accademico e società civile.
Non a caso questa avventura parte dalla geografia, non solo in quanto disciplina che da sempre studia le relazioni tra uomo e ambiente e aiuta a cogliere con l’immediatezza visiva delle mappe concretezza e pervasività delle conseguenze generate dal global warming sulla superficie terrestre, ma anche perché proprio a Padova nel 2018 i geografi italiani hanno lanciato il Manifesto per una public geography: un invito a superare il pregiudizio di una materia scolastica immobile, inerte, nozionistica e a proporre una scienza capace di parlare al pubblico e di offrire non solo dati mnemonici ma interpretazioni efficaci, visioni critiche e soluzioni praticabili ai problemi del mondo contemporaneo.
Nel fare questo la geografia invita ad essere un po’ “indisciplinati” ovvero a superare gli steccati disciplinari e gli specialismi che sono forse parte del problema quando impediscono di giungere ad una visione d’insieme. Una disciplina che si propone come ponte tra campi specializzati del sapere, tessuto connettivo tra accademia e società, luogo naturale in cui maturare una visione integrata dei problemi. Questo libro segue a distanza di due anni il pionieristico Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, edito da Aboca edizioni nel 2020. Se allora il tour del protagonista Milordo – sulle orme del viaggio in Italia effettuato da Johann Wolfang von Goethe nel 1786 – riguardava soltanto la nostra penisola, qui il viaggio assume respiro globale abbracciando l’intero pianeta, con la stessa alchimia tra linguaggi diversi: quello narrativo, quello cartografico e quello del saggio scientifico.
Un libro che consente dunque al lettore di fare tre volte il giro del mondo, in modi diversi: il primo giro del mondo è quello ridisegnato da Telmo Pievani ispirandosi alla scommessa di Phileas Fogg, il protagonista del romanzo Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne (edito esattamente centocinquant’anni fa, nel 1872), un tour mozzafiato a mille anni di distanza dall’originale, in 8 giorni, che ripercorre idealmente il viaggio compiuto dall’umanità partendo dall’Africa per giungere in una Antartide nuova “arca” di Noè, ultimo continente in grado di offrire condizioni per la sopravvivenza dell’umanità.
Il confronto tra il lontano passato e un ipotetico, non auspicabile, ma non lontano futuro sarà occasione per scoprire insieme le radici storiche profonde dell’Antropocene. A scommettere e a farci da guida questa volta è uno scienziato, che vuole battere sul tempo una stramba crociera di terrapiattisti, quelli che alla rotondità della Terra ancora non vogliono credere.
Il secondo giro del mondo è un viaggio “fantageografico” attraverso le mappe che Francesco Ferrarese ha immaginato a partire dall’ipotesi scientifica di un innalzamento di 65 metri di quota di mari e oceani generato dalla fusione totale delle calotte glaciali continentali. Il livello del mare salirebbe sia per la fusione dell’acqua ora immobilizzata nelle calotte glaciali continentali, sia per l’aumento di temperatura che dilata le masse d’acqua. Si tratta di una quota intermedia rispetto a diverse previsioni degli scienziati che danno livelli diversi d’innalzamento, dai 30-40 metri fino ad oltre 70: una delle ricerche più recenti conclude che la sola fusione del ghiaccio antartico porterebbe il livello del mare a innalzarsi di 57 metri rispetto ad oggi, e di contro uno studio altrettanto recente sembra indicare che i moti vorticosi dell’Oceano Australe stiano mitigando gli effetti del global warming almeno sul ghiaccio marino antartico, al contrario di quanto succede sul polo opposto, dove la calotta marina è in vistosa decrescita.
Il nuovo livello del mare qui immaginato con lo “zero” a 65 metri comporterebbe la perdita di circa 23 milioni di kmq, oltre il 15% delle terre emerse. In Europa la situazione più drammatica sarebbe, non a caso, quella dei Paesi Bassi, che scomparirebbero pressoché completamente, ma anche la Danimarca – con la sua bandiera nazionale più vecchia del mondo – sarebbe a rischio sparizione con la perdita dell’89% del suo territorio.
Importanti le riduzioni anche per Gran Bretagna (31%), Germania (30%) e repubbliche baltiche. La Russia perderebbe, soprattutto verso il mare del Nord, il 18% di territorio, come l’Italia, privata di buona parte della Pianura padana. Resisterebbe meglio l’Africa, che vedrebbe ridotta solo del 4% la sua superficie, ma con la sparizione di intere nazioni del versante occidentale, come Gambia, Guinea Bissau e Senegal. In Asia (13% di superficie in meno) sparirebbero, oltre agli atolli e arcipelaghi dell’Oceano Indiano (tra i più noti le Maldive), anche Singapore, Qatar, Bahrein e Bangladesh.
Gli Stati Uniti perderebbero l’11% del proprio territorio e l’intera Florida, l’America centrale e caraibica vedrebbe quasi dimezzata la sua superficie, con la sparizione di molti stati insulari (il Messico perderebbe quasi 300.000 kmq, un territorio grande come l’Italia); in Sudamerica la riduzione del 10% della superficie si tradurrebbe in una profonda ingressione marina nei sistemi fluviali del Rio delle Amazzoni e del Rio de la Plata. In Oceania i piccoli stati insulari pagherebbero il tributo maggiore, mentre la Nuova Zelanda perderebbe quasi 400.000 kmq (14%) e l’Australia quasi 800.000 (l’11% del suo territorio). Anche l’Antartide, allo stesso modo della Groenlandia, una volta fusi tutti i suoi ghiacci, perderebbe più della metà della sua superficie.
Il terzo giro del mondo ci fa attraversare luoghi e temi cruciali del mondo attuale pressoché sconosciuti, ma scelti da Mauro Varotto per il loro ruolo “euristico”, rivelatore delle contraddizioni dell’Antropocene. New York, Parigi, Londra, Berlino, Milano, San Pietroburgo, San Francisco, Los Angeles, Singapore, Tokyo sono la facciata luccicante del mondo, ma dietro questa vetrina si cela un retrobottega più scuro e sporco che presenta il conto salato di quelle luci: Atafona e Moinaq, Bidi Bidi e Dadaab, Handan e Shandong, Tar Heel e Binefar, Bantargebang e Agbogbloshie sono ai più luoghi insignificanti, eppure spie formidabili per cogliere le relazioni tra shop window e backshop, le connessioni lunghe e sottili tra cambiamenti climatici e condotte umane, tra effetti territoriali e stili di vita, mettendo in connessione il vicino e il lontano, ciò che è visibile e ciò che è invisibile ma subdolamente embricato al mondo in cui viviamo, scenari disperati e disperanti ma anche iniziative virtuose che indicano la direzione per una inversione di rotta.
Se l’umanità è il problema, una nuova umanità non può che essere la soluzione: ripensare non solo il nostro modello economico ed energetico, ma noi stessi e il nostro stile di vita è la strada obbligata per uscire dalla crisi, di cui si propone una mappa concettuale nell’ultimo capitolo. Il libro, al di là degli scenari apocalittici prefigurati dalle mappe, dunque, vuole essere un invito all’azione improntato alla fiducia e all’ottimismo: le tendenze qui portate all’estremo nel 2872 sono già in atto adesso, in tutto il mondo, non riguardano cioè un futuro remoto, bensì il presente. Ce la possiamo ancora fare, ma abbiamo poco tempo per farlo e dobbiamo farlo tutti assieme, in maniera il più possibile coerente, condivisa e giusta.
Magari a partire da questo libro – nel suo piccolo stampato con carta riciclata/proveniente da foreste certificate – che vi invita ad azzerare innanzi tutto l’impatto prodotto per il suo acquisto attraverso una conversione individuale, una maggiore attenzione collettiva agli effetti climalteranti delle nostre scelte quotidiane, per iniziare a togliere qualche goccia d’acqua all’innalzamento dei mari del futuro.
Ci auguriamo che questo giro attorno al mondo dia il suo contributo all’avvio di una economia circolare planetaria: se così sarà, avrà raggiunto la sua vera meta.
Il giro del mondo nell‘Antropocene, Telmo Pievani, Mauro Varotto, Raffaello Cortina Editore, 220 pagine, 22 euro