Benvenuti nell’Antropocene È tempo di un nuovo diritto ambientale

Il saggio del professor Domenico Amirante, edito dal Mulino, analizza il ruolo delle Costituzioni nella sfida del cambiamento climatico. Servono nuovi strumenti politici e giuridici, ma soprattutto una diversa scala di priorità

Autumn foliage
Foto: Copernicus Sentinel data (2022), processed by ESA

Parlare di diritto dell’ambiente, oggi, equivale ad addentrarsi nella più profonda, anche se a lungo sottovalutata, crisi di civiltà dell’epoca contemporanea. Una crisi che coinvolge tutto il pianeta e i suoi abitanti, a partire dalle scelte quotidiane di ciascun individuo (cosa mangiare, cosa consumare, come spostarsi) fino ai summit della politica internazionale, che si susseguono incessantemente senza produrre soluzioni di impatto significativo a problemi globali quali il riscaldamento dell’atmosfera, i cambiamenti climatici, la perdita inesorabile di biodiversità, o l’innalzamento del livello del mare, che sta ormai minacciando la stessa sopravvivenza di alcuni piccoli stati insulari.

Negli ultimi anni, tuttavia, la percezione di questa crisi si è notevolmente acuita, in ragione di una serie di avvenimenti catastrofici legati al degrado dell’ambiente di vita sulla terra, verificatisi con una accelerazione esponenziale. Basti pensare all’impressionante escalation di eventi legati ai cambiamenti climatici: alluvioni, tornado e uragani di intensità mai sperimentata prima, incendi di estensione e violenza senza precedenti, riscaldamento e innalzamento del livello del mare, desertificazione e siccità, persino in regioni (come quella del Mediterraneo) fino a ieri baciate da climi temperati.

Non si tratta però di novità dell’ultima ora se già quarant’anni fa un fisico del calibro di Fritjof Capra, descrivendo le condizioni del pianeta, avvisava come ci trovassimo in una «crisi profonda» a livello mondiale, una crisi che definiva come «complessa, multidimensionale, le cui svariate sfaccettature toccano ogni aspetto della nostra vita: la nostra salute e i nostri mezzi di sussistenza, la qualità del nostro ambiente e delle relazioni sociali, la nostra economia, tecnologia e politica».

Il grido di dolore di questo scienziato (che si inseriva in un filone aperto già negli anni Sessanta dalla biologa Rachel Carson con il famosissimo pamphlet Silent Spring) rappresenta una delle tante voci provenienti dal mondo delle cosiddette scienze esatte. Queste negli ultimi decenni, più degli stessi movimenti ambientalisti, hanno lucidamente inquadrato le ragioni della crisi ambientale, segnalando l’urgenza di un cambiamento, di un punto di svolta che ponga il tema del rapporto fra uomo e natura (e quindi di quello fra uomo e ambiente) al centro non solo delle riflessioni scientifico-dottrinali, ma anche dell’azione politica e della produzione di norme.

Fra gli innumerevoli contributi in tal senso, va segnalata la rapida affermazione della tesi dell’Antropocene che annuncia l’inizio di una nuova era geologica instabile (successiva alla stabilità dell’Olocene). Questa tesi, enunciata e ancora dibattuta in ambito scientifico-specialistico, è corroborata nei fatti dagli innumerevoli Rapporti ONU, in particolare da quelli dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), che sottolineano quanto la gravità della crisi climatica, determinata dall’innalzamento delle temperature della terra, richieda azioni innovative, radicali e urgenti, se non si vuole passare, utilizzando la metafora di Capra, dal «punto di svolta» a un «punto di non-ritorno».

La nozione di Antropocene, la cui paternità viene assegnata al premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen, designa appunto l’era geologica contemporanea in cui l’impatto ecologico dell’umanità sta determinando un radicale cambiamento dell’atmosfera e, più in generale, un degrado delle basi naturali della vita sulla terra. Mentre in epoche passate gli esseri umani hanno vissuto in modo sostenibile, in armonia con la natura, rispettando i limiti dei confini planetari e delle regole ecologiche, oggi le istituzioni sociali, economiche e politiche si trovano di fronte alla pressante esigenza di fermare o almeno rallentare una traiettoria di sfruttamento delle risorse naturali che va ben oltre la capacità di rigenerazione degli ecosistemi locali e globali.

L’Antropocene, con le sue molteplici narrazioni, è ormai penetrato nei discorsi sia delle scienze esatte che delle scienze umane e sociali, aprendo nuove prospettive per la storia, la letteratura, la filosofia, l’antropologia, la sociologia, la geografia, per citarne solo alcune. Le scienze giuridiche sono finora rimaste ai margini di questo rinnovamento intellettuale, apportando contributi ancora assai limitati alla riflessione sul ruolo che la nozione di Antropocene può svolgere per forgiare un diritto dell’ambiente più efficace.

Nei fatti, il sofisticato insieme di regole ambientali consolidate a livello internazionale e nazionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso non è stato sufficiente per mantenere l’equilibrio tra lo sviluppo economico, da un lato, e la necessità di preservare l’ambiente e la natura, dall’altro. Per rimediare a tale bilancio fallimentare, il quadro giuridico in cui operano le organizzazioni internazionali, gli stati, le aziende, le comunità e gli stessi individui, dovrebbe essere ripensato e rimodellato in modo da offrire nuovi strumenti politici e giuridici, ma, soprattutto, una diversa scala di priorità.

L’urgenza e la profondità della crisi ambientale nell’Antropocene spingono quindi a interrogarsi su questioni centrali nella teoria costituzionale, alla luce del principio di responsabilità dell’uomo non solo verso le generazioni future, ma anche nei confronti di sé stesso come entità biologica e naturale non dissociabile dal suo contesto, che lo si voglia definire ambiente, natura o, con uno sguardo più ampio, cosmo.

Tale inversione concettuale porta a immaginare nuove dimensioni della sovranità, un diverso ruolo dello stato (orientato a tutelare gli equilibri ambientali) e spinge verso una riconsiderazione dei diritti e delle libertà nel loro complesso (a prescindere dal mero riconoscimento di un diritto all’ambiente), anche alla luce di un rafforzato ruolo dei doveri costituzionali. Si tratta quindi di costruire le basi teoriche di un diritto costituzionale dell’ambiente, superando il cortocircuito metodologico di una disciplina che si è prevalentemente sviluppata su basi empiriche, emergenziali e occasionali, creando il paradosso di «una prassi in cerca di una teoria».

Bisogna certamente essere consapevoli che, in questa situazione di crisi, il diritto non può rappresentare la panacea per tutti i mali, ma deve contribuire in maniera decisiva a rafforzare e a dar corpo alle istanze di tutela ambientale, ormai sempre più presenti nelle società contemporanee, e a superare quell’impasse culturale, politica ed economica che le ha costantemente frenate.

Fino ad oggi, però, il diritto, e in particolare quello ambientale, non ha raggiunto i risultati sperati, collezionando una serie di sconfitte sia sul piano della repressione dei comportamenti dannosi nei confronti di ambiente ed ecosistemi, sia quello della delineazione di un quadro normativo efficace per la tutela dell’ambiente, ma, soprattutto, non essendo in grado di svolgere quella funzione di stimolo a comportamenti virtuosi che deve sempre accompagnare la norma giuridica come dover essere.

Da Domenico Amirante, “Costituzionalismo ambientale”, Il Mulino, pagine 280, 24 euro

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