Fin dai primi casi di covid-19 nell’inverno del 2020, la comunità scientifica internazionale ha investito tempo e risorse per fare chiarezza in merito alla provenienza del coronavirus e alle potenziali epidemie o pandemie del futuro. Tuttavia, l’origine del SARS-CoV-2 rimane controversa. Stando al primo resoconto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), molto probabilmente è “saltato” dall’animale all’uomo. C’è chi ha parlato di pipistrelli, chi di pangolini. Ma non esistono certezze. Ci sono però molti altri fattori che potrebbero aver influenzato l’emergenza sanitaria e la diffusione del contagio. E tra questi figura il cambiamento climatico, che potrebbe favorire la diffusione di nuove epidemie o pandemie.
Già molto prima che qualsiasi teoria scientifica sulle malattie infettive fosse stabilita, gli aristocratici romani si ritiravano in estate nelle loro case di montagna per evitare la malaria. Gli esseri umani, insomma, hanno da sempre percepito il rapporto tra le condizioni climatiche/ambientali e le epidemie. Presente da tempo ma troppo spesso sottovalutata, c’è una scuola di pensiero che associa il riscaldamento globale all’emergere di nuovi virus che potrebbero rappresentare minacce per la salute umana.
Negli ultimi decenni, il numero di malattie infettive diffuse tra gli esseri umani – in particolare le patologie respiratorie che si ritiene provengano da pipistrelli e uccelli – è cresciuto notevolmente. È probabile che i virus responsabili di queste malattie siano sempre esistiti, sepolti in profondità in luoghi selvaggi e remoti fuori dalla portata delle persone. Cos’è cambiato, allora? Decenni fa, i sistemi di “difesa naturale del pianeta” erano più solidi e riuscivano a contenere questi virus. Oggi, però, il cambiamento climatico sta demolendo quegli stessi sistemi.
L’aumento delle attività umane legate all’industrializzazione (come la deforestazione sconsiderata e la conversione dei terreni in favore dello sviluppo economico) ha creato un marcato squilibrio dei fattori ambientali, come la temperatura e altri agenti atmosferici. E questo squilibrio ha imposto le condizioni per l’emergere di futuri cicli di virus.
L’ultima conferma di questa teoria arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature. La ricerca, dal titolo “Climate change increases cross-species viral transmission risk”, analizza come, per via del cambiamento climatico, oltre 3.000 specie di mammiferi stanno migrando verso aree più fresche e più vicine agli insediamenti umani. Spostandosi per la sopravvivenza, tali animali potrebbero entrare in contatto per la prima volta con nuove specie, creando potenzialmente migliaia di scambi infettivi nei quali i virus potranno “saltare” all’interno di nuovi ospiti (come gli esseri umani) nei decenni a venire. Nello specifico – ipotizzano gli autori della ricerca – se la temperatura globale aumentasse di 2°C, potrebbero sorgere 15.000 nuovi virus nei prossimi 50 anni. Questo è particolarmente vero per l’Africa e l’Asia, continenti che negli ultimi decenni sono stati punti caldi per la diffusione di malattie dagli animali all’uomo, tra cui l’influenza e l’ebola, o il virus HIV. I ricercatori hanno specificato che non tutti i virus si diffonderanno tra gli umani o creeranno pandemie della portata di quella che stiamo vivendo.
«Questo studio dimostra un ulteriore modo attraverso cui i cambiamenti climatici minacceranno la salute umana e animale», afferma il co-autore dello studio Gregory Albery, ricercatore presso il dipartimento di Biologia dell’università di Georgetown. Altre ricerche precedenti avevano esaminato il rapporto tra perdita di biodiversità, deforestazione, commercio di specie selvatiche e diffusione di zoonosi, ossia infezioni o malattie che passano dagli animali alla popolazione umana. Nell’ottobre del 2020, come ha riportato il Financial Times, sul nostro pianeta c’erano «circa 1,6 milioni di virus nei mammiferi e negli uccelli, di cui circa 700mila potrebbero avere il potenziale per infettare gli esseri umani. Ma di questi, solo circa 250 sono già entrati in contatto con noi. Gli altri ancora no».
L’Ipbes (Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services) – la piattaforma dell’Onu che si occupa di biodiversità ed ecosistemi – ha poi presentato il report Escaping the era of pandemic. Analizzando nei dettagli oltre 600 ricerche scientifiche fin qui pubblicate, gli esperti hanno confermato che con il cambiamento climatico insorgeranno sempre più spesso (e sempre più rapidamente) delle nuove patologie.
Cambiamenti climatici, sbalzi di temperatura improvvisi, eventi estremi come inondazioni, uragani e siccità sono quindi il terreno fertile ideale per l’emergere di nuove malattie infettive. La chiave per comprendere questa relazione, come riassunto dalla Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive, consiste nel riconoscere che le alterazioni delle temperature medie, dei livelli di umidità, della qualità della vegetazione e del conseguente movimento su larga scala degli animali provocano inevitabilmente dei cambiamenti nei modelli di distribuzione degli artropodi, che a loro volta portano alla trasmissione di malattie.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stata risoluta nei suoi avvertimenti sui rischi del cambiamento climatico, che – insieme ad altri fattori come la globalizzazione e i cambiamenti demografici e sociali – possono influenzare l’insorgenza di malattie infettive su scala globale. Ad esempio, gli scienziati hanno già dimostrato che, nella misura in cui si verifica un aumento della temperatura media della Terra, assistiamo anche a un conseguente aumento di attività delle zanzare che trasmettono la malaria. Inoltre, altri fattori legati ai cambiamenti climatici – come l’inquinamento e il deterioramento della qualità dell’aria – ci rendono più suscettibili alle malattie respiratorie infettive.
Purtroppo, non stiamo parlando di un futuro a breve o lungo termine, ma della realtà in cui già stiamo vivendo. «Per i virus del mondo, questo periodo rappresenta un’opportunità senza precedenti», scrive su The Atlantic il giornalista scientifico Ed Yong – vincitore del premio Pulitzer per i suoi servizi sulla pandemia da coronavirus – prima di utilizzare il termine «Pandemicene». Dopo l’Antropocene (l’epoca in cui l’uomo, con le sue attività, è riuscito ad avere un’influenza sui processi geologici), il cambiamento climatico ci sta conducendo verso una nuova era: il Pandemicene, appunto. Si tratta dell’epoca delle pandemie e del salto dei virus tra diverse specie. Ovviamente il termine usato da Ed Yong non è stato approvato dalla comunità scientifica, ma rende bene l’idea di ciò che potremmo vivere nel futuro.
«Il momento in cui agire per bloccare il cambiamento climatico ed evitare un aumento della trasmissione virale era 15 anni fa», spiega a The Atlantic Colin Carlson, biologo del cambiamento globale all’università di Georgetown e tra gli autori dello studio di Nature menzionato in precedenza. «Siamo in un mondo che è 1,2°C più caldo rispetto ai livelli pre-industriali e non possiamo fare marcia indietro. Dobbiamo prepararci all’idea che le pandemie saranno sempre più frequenti», aggiunge l’esperto. Quella famosa “nuova normalità” di cui si è tanto parlato, forse, consiste proprio nell’imparare a convivere con nuovi virus.