Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da mercoledì 23 novembre e ordinabile qui.
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Le rivoluzioni sembrano sempre impossibili il giorno prima, e sempre inevitabili il giorno dopo. La rivolta delle ragazze contro “l’apartheid di genere”, cui le donne iraniane sono state costrette dagli ayatollah a cominciare dal 1979, pareva impossibile fino al giorno prima dell’assassinio di Mahsa Amini il 16 settembre 2022, una ragazza colpevole di essersi tolta dalla testa quel cencio medievale chiamato hijab e imposto dal clero sciita.
Quarantatré anni di potere teocratico dei mullah corrotti e miserabili su una società che un tempo era tra le più avanzate e moderne del Grande Medio Oriente sembravano fossero destinati a durare in eterno. Fine mullah mai.
Quando l’ayatollah Khomeini con l’aiutino dei francesi instaurò la Repubblica islamica sciita, le giovani donne di Teheran provarono a resistere, a cominciare dal velo (come mostrano le splendide fotografie che pubblichiamo su Linkiesta Magazine), ma i metodi islamofascisti delle squadracce della Gasht-e Ershad, la polizia morale religiosa, fecero calare le tenebre su tutto l’Iran e in particolare sulla condizione delle donne.
Il regime teocratico degli ayatollah è sopravvissuto a tutto, alle guerre sanguinarie con Saddam Hussein e alle sanzioni americane, ma per la prima volta improvvisamente mostra i segni di un cedimento strutturale grazie alle commoventi proteste delle ragazze, e poi anche dei ragazzi, contro l’imposizione del velo e in solidarietà alle vittime della repressione islamista, volte ormai a destituire i carcerieri di un’intera generazione che vuole vivere come le coetanee di New York e di Los Angeles.
«Donna, vita, libertà», ecco la rivoluzione inevitabile, popolare, coraggiosa e ammirevole. Siamo dunque arrivati all’alba del giorno dopo, come racconta Mariano Giustino in apertura di questo numero del nostro giornale con il World Review del New York Times.
C’è un altro popolo coraggioso e ammirevole che altrettanto inevitabilmente sta lottando per la propria incolumità, per la propria indipendenza, per la propria libertà.
Questo popolo è il popolo ucraino sotto attacco russo dal 24 febbraio 2022, ma in realtà da anni, anzi da secoli caratterizzati da incessante pulizia etnica, linguistica e culturale, e da stermini pianificati dagli zar imperialisti, dai comunisti dell’Unione sovietica e dal loro attuale e tragicomico imitatore di stanza al Cremlino, il palazzo più sanguinario della storia dell’umanità. Linkiesta è orgogliosa di pubblicare per la seconda volta le riflessioni di Volodymyr Yermolenko, il principale filosofo contemporaneo ucraino, e le parole di Serhiy Zhadan, il più importante scrittore e poeta (e anche musicista punk rock) del Paese. Yermolenko e Zhadan sono le voci più rappresentative della generazione ucraina che dalle proteste di Majdan alla resistenza antirussa sta combattendo per la libertà e l’indipendenza di un popolo, e anche per noi.
A unire le ragazze e i ragazzi iraniani e ucraini non c’è solo la comune battaglia per la libertà e l’aspirazione a vivere come i coetanei occidentali, come i newyorchesi o i parigini, c’è anche un nemico comune.
Un nemico astratto che è il regime autocratico e fanatico che li vorrebbe tenere entrambi in carcere e in alternativa li uccide senza pietà, ma anche un nemico fatto di persone fisiche che non a caso sono saldamente alleate nell’organizzare la doppia carneficina di questi mesi.
I droni kamikaze che uccidono i civili ucraini nelle scuole, nei centri commerciali, nei parchi giochi e negli ospedali delle città che resistono all’invasore russo sono forniti a Vladimir Putin dagli ayatollah iraniani.
Se esiste un asse del male oggi è composto dall’alleanza criminale russo-iraniana, impegnata a cancellare una generazione di ucraini (e pure di russi usati come carne da macello) e a reprimere nel sangue una generazione di iraniani.
L’Iran è sotto attacco interno, l’Ucraina è sotto attacco esterno, ma l’evidenza della battaglia comune è lampante, solo alcuni volenterosi complici occidentali di Putin e di Ali Khamenei non vogliono vedere quello che invece succede alla luce del sole.
C’è un’altra questione, decisiva, che segna inesorabilmente la fine del regime reazionario di Teheran e purtroppo tiene ancora in vita quello autoritario di Mosca.
Gli iraniani si stanno ribellando, i russi no. Gli iraniani della diaspora scendono in piazza, i russi no. Gli iraniani che vivono all’estero manifestano con gli ucraini contro i due regimi, i russi che vivono in Italia, in Francia, in Germania, in Gran Bretagna fanno shopping e si girano dall’altra parte.
I russi non muovono un dito per gli ucraini e al massimo fingono di non essere corresponsabili dei crimini di guerra di cui invece sono complici, come se i russi che ogni giorno uccidono donne e bambini ucraini fossero un popolo diverso rispetto a quello sedicente illuminato di Mosca, di San Pietroburgo o della diaspora occidentale.
Nel 1985, quando i vertici sovietici minacciavano l’uso dell’atomica, una famosa canzone di Sting, Russians, si augurava per scongiurare la guerra totale che anche i russi amassero i loro figli, come gli occidentali avevano a cuore i loro.
«Potremmo salvarci, me e te, solo se anche i russi amassero i loro figli», cantava Sting. Vale anche oggi, vale per i russi e per gli iraniani, con la differenza che oggi sappiamo che sia i russi sia gli iraniani non amano i figli degli ucraini e nemmeno i loro.
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