Giorgia Meloni tiene molto alle questioni identitarie, come dimostra la scelta di dedicare i primi provvedimenti del governo all’obiettivo di creare sul piano simbolico un’emergenza che non c’era, quella dei rave, nel momento stesso in cui nega un’emergenza che c’è stata e che purtroppo potrebbe tornare, quella del Covid, condonando le multe ai medici no-vax, facendoli rientrare in servizio e definendo «ideologico» l’approccio dei governi precedenti. Tutto questo configura una precisa identità. Potremmo definirla: la destra asociale.
Sfortunatamente anche la principale forza di opposizione, il Partito democratico, ha puntato molto, quasi tutto, sulle questioni simboliche e identitarie. Lo ha fatto anche prima della dimenticabile campagna elettorale all’insegna della sfida tra il rosso e il nero, rispolverando un radicalismo – cioè un lessico, una posa, un atteggiamento orgogliosamente minoritario – che è in verità l’altra faccia del tanto deprecato elitarismo. Un minoritarismo che la sinistra italiana sembrava avere superato dagli anni novanta (almeno nei gruppi dirigenti dei partiti maggiori), ma che avrebbe potuto avere ugualmente una relativa capacità di attrazione se incarnato da una leadership minimamente coerente con quel messaggio, per biografia personale e per storia politica (che so: Elly Schlein, Maurizio Landini, Aboubakar Soumahoro). Una posizione semplicemente incomprensibile, però, se impersonata da Enrico Letta, l’uomo che definiva «un sogno» la nascita del governo di Mario Monti. Incomprensibile, evidentemente, anche per lo stesso Letta, che infatti la traduceva in due scelte strategiche perfettamente incompatibili tra loro: l’ostinata ricerca di un rapporto privilegiato con Giuseppe Conte e il suo Movimento 5 stelle da un lato, dall’altro il non meno convinto sostegno al governo di Mario Draghi e alle sue scelte fondamentali di politica estera e di politica economica (diametralmente opposte, quando non apertamente contrapposte, a quelle di Conte e del M5s).
Quando le due opzioni, com’era prevedibile, sono entrate in rotta di collisione, e il Pd è stato costretto a scegliere tra Conte e Draghi, abbiamo avuto di conseguenza i quindici giorni di puro delirio con cui il Pd ha cominciato la campagna elettorale. Prima scomunicando Conte e buttandosi a corpo morto su Carlo Calenda, senza esitare a sottoscrivere in men che non si dica il suo programma, con l’Agenda Draghi al posto del libretto rosso di Mao, e poi, scaricato da Calenda all’ultimo minuto, tornando maldestramente dall’Agenda Draghi al libretto rosso, perlomeno nei toni. Così oggi il governo Meloni si trova davanti l’opposizione ideale (per lei, s’intende).
Pur avendo passato l’ultimo mese e mezzo ad additare nel «governismo», cioè nella tendenza ad andare al governo indipendentemente dal responso delle urne, la causa principale della propria disfatta elettorale, il gruppo dirigente del Pd continua infatti a governare il partito come se niente fosse, incurante della disfatta elettorale.
Alla maldestra e a tratti inquietante avanzata di una nuova destra asociale, insomma, si contrappone la vuota retorica di un partito orgogliosamente ademocratico, che non intende cambiare i propri vertici prima di marzo, che passeranno dunque i prossimi quattro o cinque mesi nel tentativo di rimescolare le carte in tavola e riconfermarsi ancora una volta alla guida.
Chissà come mai nei sondaggi il Pd continua a precipitare.