Puntuale come il cameriere nelle vesti dell’assassino, a un certo momento dei vari psicodrammi del Partito democratico spunta il fantasma della scissione, tante volte evocata, talora praticata, un refrain sempre uguale come quelli di certi pezzi blues. Quando il gioco si fa duro e l’aria diventa pesante c’è sempre qualcuno che paventa la mitica scissione che a seconda delle circostanze può essere una roba di minoranze che se ne vanno oppure la Grande Spaccatura, la presa d’atto che effettivamente l’amalgama non funzionava. Tutto è possibile, figurarsi, tanto è preoccupante più che la crisi del partito il vuoto pneumatuco di idee forti per superarla.
In un certo senso invece la scissione potrebbe persino essere un’opportunità positiva, liberatoria, intellettualmente onesta, un colpo d’ala creativo, l’esito di una coesistenza non pacifica tra due anime, quella più di sinistra e quella più moderata o riformista che dir si voglia: e messa così sarebbe un’operazione nobile – perché dietro le baruffe dem la ciccia è molto più prosaica, lotte di potere, mantenimento di filiere, coltivazioni di interesse personali e di gruppo – cioè un heri dicebamus, un superamento all’indietro del Lingotto e del progetto del riformismo in un solo partito che ne era alla base ma in nome di un passo avanti persino igienico sotto il profilo della chiarezza politica.
La storia è andata com’è andata sino a oggi che la casa brucia davvero e i soccorsi non arrivano, così che un dirigente di prestigio come Dario Nardella l’ha buttata là senza giri di parole: «Se noi non troviamo una base comune di valori tra posizioni diverse che in questi anni si sono manifestate il Pd rischia una scissione». Bum. Ma ricostruire una base di valori comuni, un linguaggio unitario, una pratica solidale non sembra impresa facile e forse nemmeno alla portata di questo gruppo dirigente che assomiglia a quelle famiglie nelle quali da tempo non ci si capisce più, come nelle commedie di Pirandello o di Eduardo, visto che su ogni cosa – ma davvero su ogni cosa – non c’è concordia, da Zelensky alla Moratti, per dire, su tutto aleggiano i soliti sospetti, quello vuole fare le scarpe a quell’altro, in un ginepraio di giochi e posizionamenti talvolta inestricabile anche per gli addetti ai lavori, figuriamoci per quei poveri militanti che ancora alla sera alzano la serranda della sezione o circolo che dir si voglia ove resiste una vecchia tradizione ormai sbiadita dal tempo.
Uno di questi addetti ai lavori, e tra i più acuti, Claudio Velardi, ha osservato che «oggi il Pd non ha alternative alla divisione: da una parte i postcomunisti che non amano la società in cui viviamo e immaginano improbabili palingenesi. Dall’altra i postdemocristiani, moderati, concreti e riformisti per storia e cultura»: eppure forse la Grande Spaccatura non sta solo e tanto nelle radici divaricate del partito di Walter Veltroni – gli ex Dc e gli ex Pci – quanto in una generale incapacità di fare i conti con un mondo che è radicalmente cambiato persino dal 2007, anno di fondazione del Pd, quando la realtà pareva ancora intrinsecamente progressiva mentre 15 anni dopo ci troviamo l’imperialismo nel cuore dell’Europa, chi l’avrebbe mai detto.
Ci sono un paio di generazioni che non sanno nemmeno chi siano non diciamo Aldo Moro ed Enrico Berlinguer ma neppure Veltroni e Massimo D’Alema, ma a chi vuole parlare questo Pd? Non lo sanno nemmeno loro, per questo le ricette sono vaghe, quando ci sono, e nella vaghezza tutto diventa lecito e qualunque linguaggio legittimo così che Babele è diventata davvero il regno della sinistra. E giustamente Velardi la gira poi in politica sostenendo che «se la vecchia sinistra – coerentemente – si accaserà con la nuova “sinistra” a cinquestelle, e i riformisti andranno con i riformisti, ci sarà un’evoluzione positiva del sistema politico. In caso contrario, l’attuale Pd sarà un elemento di ambiguità e di blocco permanente».
E qui si ritorna all’amalgama mal riuscito, o come diceva Lucio Magri, ai «merli con i merli, i passeri con i passeri» non essendo più i “merli” i rivoluzionari e i “passeri” i riformisti ma più semplicemente quelli che guardano alla testimonianza del disagio sociale contro quelli che mantengono l’ambizione del “governo difficile”, per usare un’antica formula di Giovanni Spadolini. E dunque nell’attuale quadro politico ciò allude al possibile duplice sbocco nel mélenchonismo in salsa contiana e nella riaggregazione in un nuovo contenitore riformista e macroniano: le sirene di Movimento 5 stelle e Azione-Italia viva, insomma, che suonano – come ha notato Stefano Folli – la prima nella comfort zone meridionale, la seconda nel dinamico Nord.
È probabile, conoscendone l’istinto di conservazione e la mancanza di fantasia, che il Pd celebrerà il suo congresso con lacrime, parole, abbracci e gazebo senza però alla fine trarre conseguenze diverse da un andare avanti con juicio grazie alla solita cooptazione e a una unità più formale che sostanziale in attesa che passi ’a nuttata più scura della sinistra italiana. In attesa del prossimo fantasma.